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Stalking, marito condannato se insiste nel voler vedere la figlia

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Con la sentenza n. 51112 dello scorso 18 dicembre, la V sezione penale della Corte di Cassazione, ha confermato la condanna per il reato di atti persecutori inflitta ad un uomo che, pur di vedere la propria figlia, aveva posto in essere una serie continua di minacce, aggressioni fisiche e pedinamenti ai danni della moglie che, intimorita per la propria incolumità, si vedeva costretta a trasferirsi presso l'abitazione dei genitori.

La Corte ha specificato che la prova dello stato d'ansia o di paura denunciato dalla vittima del reato può essere dedotta anche dalla natura dei comportamenti tenuti dall'agente, qualora questi siano idonei a determinare in una persona comune tale effetto destabilizzante.

Il caso sottoposto all'attenzione della Cassazione prende avvio dall'esercizio dell'azione penale nei confronti di un uomo, accusato del reato di atti persecutori ai danni della moglie separata.

In particolare, l'uomo aveva posto in essere una serie continua di minacce, aggressioni fisiche e pedinamenti ai danni della moglie, "colpevole" di avergli impedito di vedere la figlia di appena quattro anni di età; tali atti perduravano anche dopo l'adozione della misura coercitiva e cessavano solo a seguito della raggiunta serenità dell'uomo, per il consolidarsi di un nuovo legame affettivo.

Per tali fatti, sia il Tribunale che la Corte d'appello dell'Aquila condannavano l'imputato alla pena di giustizia. 

A sostegno della propria decisione, la Corte di Appello rilevava come il comportamento dell'ex marito aveva cagionato nella persona offesa sofferenze e timori per la propria incolumità, tanto da spingere la donna a trasferirsi presso l'abitazione dei genitori.

Ricorrendo in Cassazione, l'imputato evidenziava come non fosse emerso l'evento di reato del delitto contestatogli. A tal fine rilevava come la Corte di appello aveva concentrato la propria attenzione soltanto sul profilo della attendibilità della persona offesa, trascurando invece di rispondere al motivo di gravame con il quale si poneva in dubbio la sussistenza dell'evento del reato.

La Cassazione non condivide le censure rilevate, ritenendole manifestamente inammissibili e volte a sollecitare un, non consentito, apprezzamento in fatto delle risultanze processuali.

In punto di diritto, la Corte ricorda come nel delitto previsto dell'art. 612-bis c.p. l'evento deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso: dalla reiterazione degli atti deve derivare nella vittima un progressivo accumulo di disagio che, alla fine della sequenza, va a sfociare in uno stato di prostrazione psicologica in grado di manifestarsi in una delle forme previste dalla norma incriminatrice. 

 Ne deriva che la prova dello stato d'ansia o di paura denunciato dalla vittima del reato può essere dedotta anche dalla natura dei comportamenti tenuti dall'agente, qualora questi siano idonei a determinare in una persona comune tale effetto destabilizzante: è sufficiente, infatti, che gli atti ritenuti persecutori abbiano un effetto destabilizzante dell'equilibrio psicologico della vittima e che l'effetto destabilizzante sia oggettivamente rilevabile, senza rimanere confinato nella mera percezione soggettiva della vittima del reato senza; non è, invece, necessario che l' ansia o la paura – per quanto gravi e perduranti – corrispondano necessariamente ad un preciso stato patologico.

Difatti, la sussistenza del grave e perdurante stato di turbamento emotivo preso in considerazione dall'art. 612-bis c.p. prescinde dall'accertamento di uno stato patologico, anche al fine di differenziare tale norma da quella contenuta nell'art. 582 c.p., il cui evento è configurabile sia come malattia fisica sia come malattia psichica; conseguentemente, lo stato patologico può assumere rilevanza solo nell'ipotesi di contestazione del concorso formale con l'ulteriore delitto di lesioni.

Con specifico riferimento al caso di specie, la Corte di appello aveva correttamente rilevato come la serie continua di minacce, aggressioni fisiche e pedinamenti posti in essere dall'imputato ai danni della moglie aveva cagionato alla persona offesa sofferenze e timori per la propria incolumità: tale decisione, insindacabile in sede di legittimità in quanto adeguatamente e logicamente motivata, ha correttamente interpretato i principi giurisprudenziali sopra richiamati e appare, quindi, ineccepibile.

Alla luce di tanto, la Cassazione dichiara inammissibile il ricorso. 

 

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