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Renato Serra, “Esame di coscienza di un letterato” La guerra ieri come oggi

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 È sufficiente assistere ad un telegiornale, sfogliare le pagine di un quotidiano, ascoltare un radiogiornale, fermarsi un attimo al bar o in piazza accanto ad un crocicchio di persone per percepire che l'unico argomento di conversazione è la guerra.

Questa guerra "assurda" viene definita. Come se ci fossero guerre ragionevoli.

Eppure oramai, come di solito accade, a dire il vero, quando ci si trova in situazioni come quella che stiamo vivendo da oltre un mese, si sono creati tre fronti: i pro, i contro è chi non crede che ci sia in atto una guerra. Questa terza categoria è la più pericolosa.

A dire il vero non si tratta di novità.

Ogni guerra conosce i suoi orrori, nonostante gli entusiasmi iniziali, ora di questo, ora di quello.

Allo scoppio della Prima guerra mondiale, l'Italia non partecipa, anche se era ancora in vigore la Triplice alleanza, un patto militare difensivo stipulato il 20 maggio 1882 a Vienna dagli imperi di Germania e Austria-Ungheria, che già formavano la duplice alleanza, e dal Regno d'Italia.

 Eppure in Italia, dall'inizio della Grande guerra, il 28 luglio 1914, fino al 28 maggio 1915, si apre un dibattito tra movimenti, partiti politici, giornali d'opinione ed intellettuali. Tra chi voleva l'entrata in guerra dell'Italia e chi, invece, sosteneva i buoni motivi per restarne fuori.

Se avete prestato attenzione, anche oggi, soprattutto nelle trasmissioni televisive, sono scesi in campo gli intellettuali, i cattedratici, i professionisti delle notizie: quelli vere e quelle false.

Gli intellettuali, soprattutto, oggi, stanno creando una confusione, uguale ed identica a quella di ogni conflitto tra nazioni.

Tra il 1914 e il 1915, Benedetto Croce (1866-1952) sosteneva che "La violenza non è una forza ma debolezza. Né mai può essere creatrice di cosa alcuna, ma soltanto di distruggerla".

Erano momenti delicati. Vari gruppi di pressione lavoravano affinché l'Italia entrasse in guerra. Sicuramente i "Futuristi" di Filippo Tommaso Martinetti che glorificava la guerra come "… sola igiene del mondo", ma anche il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna".

Non tutti gli scrittori e gli intellettuali erano favorevoli alla guerra.

Tra questi, piace ricordare ai lettori di queste note, un giovane scrittore romagnolo, Renato Serra, nato a Cesena il 5 dicembre 1884 e ucciso a Podgora, vicino Gorizia, il 20 luglio 1915, mentre guidava all'assalto la sua compagnia.

Era contro la guerra, alla fine cedette.

Ma chi era Renato Serra.

Uno scrittore e un giovane intellettuale

Nel 1900 si scrive all'Università di Bologna nella facoltà di lettere e filosofia. Nel 1904 si laurea, entra in buoni rapporti con Giuseppe Prezzolini, Giuseppe De Robertis e con Benedetto Croce. Queste amicizia gli consentono di collaborare ad una delle più qualificate riviste letterarie: "La Voce" diretta da Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini.

E sarà proprio l'evento più radicale che potesse capitare ai giovani di quell'epoca: lo scoppio della Prima guerra mondiale.

Un evento che sconvolse ogni forma di progettualità per il futuro di milioni di giovani italiani, ed europei.

Renato Serra, tra il 20 e il 25 marzo del 1915 scrive un lunghissimo saggio, "Esame di coscienza di un letterato", uno dei capolavori della letteratura italiana pubblicato sulla "Voce"

in cui affronta i problemi della nuova generazione dei letterati e degli intellettuali davanti alla guerra.

Un saggio che cercherò di proporre qualche piccola "pillola", che possa indurre i lettori di questa nota a qualche virtuosa riflessione sulla guerra.

"Che cosa è che cambierà su questa terra stanca, dopo che avrà bevuto il sangue di tanta strage: quando i morti e i feriti, i fortunati e gli abbandonati dormiranno insieme sotto le zolle, e l'erba sopra sarà tenera lucida nuova, piena di silenzio e di lusso al sole della primavera che è sempre la stessa? […] E dopo cento, dopo, mille anni la guerra tornando si urta alle stesse dighe, riporta agli stessi sbocchi i gruppi degli uomini cacciati o suscitati dalle stesse sedi. È la stessa marea umana che ha traslocato sul Reno e per le Fiandre, ha allagato i piani germanici e sarmatici e s'è rotta ai passi dei monti. Si combatte negli stessi campi, si cammina per le stesse strade. […] Facciano i tedeschi e i loro amici tutto quello che vogliono e che possono. Noi abbiamo una sola cosa da offrire per compenso a tutte le ingiustizie dell'universo: ma questa ci basta, e il nostro cristianesimo, che ha perduto tutto il Dio e tutta la speranza, non ha perduto la tristezza e il gusto dell'eternità. […] Non so e non curo. Tutto il mio essere è un fremito di speranze a cui mi abbandono, senza più domandare; e so che non sono solo. Tutte le inquietudini e le agitazioni e le risse e i tumori d'intorno nel loro sussurro confuso hanno la voce della mia speranza. Quando tutto sarà mancato, quando sarà il tempo dell'ironia e dell'umiliazione, allora ci umilieremo: oggi è il tempo dell'angoscia e della speranza. E questa è tutta la certezza che mi bisognava. Non mi occorrono altre assicurazioni sopra un avvenire che non mi riguarda. Il presente mibasta; non voglio né vedere né vivere al di là di questa ora di passione". 

 

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