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Michel Montaigne: "Se dovessi dare un consiglio agli avvocati in merito al lor parlare..."

Michel Montaigne: "Se dovessi dare un consiglio agli avvocati in merito al lor parlare..."

Michel Eyquem de Montaigne (Bordeaux, 28 febbraio1533Saint-Michel-de-Montaigne, 13 settembre1592) è stato un filosofo, scrittore e politicofrancese noto anche come aforista. Lo scopo dichiarato della sua opera è "descrivere l'uomo, e più particolarmente se stesso". "L'argomento del mio libro sono io" scriverà nelle prime pagine dei Saggi, ed in essi parlerà a lungo delle sue caratteristiche fisiche, del suo temperamento, dei suoi sentimenti, delle sue idee e degli avvenimenti della sua vita. Il suo fine è quello di conoscersi e di conquistare la saggezza. Il sentimento di una vita pienamente accettata e quindi goduta, la serena attesa della morte, considerata un evento naturale da attendere senza timore, rendono questo libro estremamente umano.
Montaigne stima che la variabilità e l'incostanza sono due delle sue caratteristiche principali. Egli descrive la sua debole memoria, la sua capacità di sciogliere i conflitti senza farvisi implicare emotivamente, il suo disgusto per gli uomini che inseguono la celebrità e i suoi tentativi per distaccarsi dalle cose del mondo per prepararsi alla morte. Il suo celebre motto: "Che cosa conosco?" appare come il punto di partenza di tutto il suo pensiero filosofico.
L'opera del filosofo dà al lettore l'impressione che l'attività pubblica abbia impegnato l'autore esclusivamente nel tempo libero, mentre la sola cosa essenziale per Montaigne rimane la conoscenza di sé e la ricerca della saggezza. Nei Saggi viene raffigurato un uomo in tutta la sua complessità, consapevole delle sue contraddizioni, animato da due sole passioni: la verità e la libertà.

«[...] sono così assetato di libertà che mi sentirei a disagio anche se mi venisse vietato l'accesso ad un qualsiasi angolo sperduto dell'India [...]» 


  1. Il filosofo fu tra i pionieri del pensiero moderno. Studiando se stesso, giunse all'accettazione della vita con tutte le sue contraddizioni. La condizione umana ideale è per Montaigne l'accettazione di se stessi e degli altri con tutti i difetti e con tutti gli errori che la natura umana comporta. Gli ultimi anni dello scrittore furono confortati dall'affettuosa presenza di Marie de Gournay, che egli volle come figlia adottiva. E fu proprio Maria a curare - insieme a Pierre de Brach - un'edizione delle opere di Montaigne, apparsa postuma nel 1595.
L'influenza dello scrittore è stata grandissima per tutta la letteratura europea. I Saggi sono considerati una delle opere più significative ed originali del rinascimento. Sostanzialmente sono brani di varia lunghezza, struttura, soggetto ed umore. Taluni sono di estrema brevità, mentre altri - più estesi - affrontano problemi specifici di quel tempo come, ad esempio, l'uso della tortura come mezzo di prova.
Lo stile di Montaigne è allegro e spregiudicato: passa velocemente da un pensiero all'altro. Le sue considerazioni sono costantemente puntellate con citazioni di classici greci e latini. Giustifica questa abitudine con l'inutilità di "ridire peggio qualcosa che un altro è riuscito a dire meglio prima".
Mostra la sua avversione per la violenza e per i conflitti fratricidi tra cattolici e protestanti che avevano cominciato a massacrarsi nello stesso periodo in cui appariva il Rinascimento, deludendo le speranze che gli umanisti avevano riposto in esso. Per Montaigne, bisogna evitare la riduzione della complessità a opposizioni nette, all'obbligo di schierarsi, e privilegiare la ritirata scettica come risposta al fanatismo.

«Malgrado la sua lucidità infallibile, malgrado la pietà che lo sconvolgeva fino in fondo all'animo, egli ha dovuto assistere a questa spaventosa ricaduta dell'umanesimo nella bestialità, a uno di quegli eccessi sporadici di follia che prendono a volte l'umanità (...) è questa la vera tragedia della vita di Montaigne»

(Stefan Zweig, «le Monde d'hier — Souvenirs d'un Européen», trad. de Serge Niémetz, Belfond, p. 534)
Gli umanisti avevano creduto di ritrovare nel Nuovo Mondo l'Eden, mentre Montaigne deplora che la sua conquista porti sofferenze a coloro che si tenta di ridurre in schiavitù. Egli provava più orrore per la tortura che i suoi simili infliggevano a degli esseri viventi che per il cannibalismo di quegli Indiani d'America che si chiamavano "selvaggi", e che ammirava per il privilegio che riservavano al loro capo di "marciare verso la guerra per primo".
Come molti uomini del suo tempo (
Erasmo, Tommaso Moro, Guillaume Budé) Montaigne constatava un relativismo culturale, riconoscendo che le leggi, le morali e le religioni delle differenti culture, anche se spesso molto diverse e distanti, hanno tutte qualche fondamento.
Soprattutto Montaigne è un grande sostenitore dell'umanesimo. Se crede in Dio, si sottrae a qualsiasi speculazione sulla sua natura, e poiché il sé si manifesta nelle contraddizioni e nelle variazioni, pensa che debba essere spogliato delle credenze e dei pregiudizi che l'impacciano.

 Notiamo anche che, nel dono dell'eloquenza, gli uni hanno la facilità e la speditezza e, come si dice, hanno la parlantina così sciolta da esser pronti in ogni momento: gli altri, più lenti, non dicono mai nulla che non sia elaborato e premeditato. Come si consiglia alle signore di dedicarsi ai giochi e agli esercizi del corpo secondo il vantaggio di ciò che esse hanno di più bello. Se io dovessi ugualmente dar giudizi a proposito di questi due diversi vantaggi dell'eloquenza, della quale pare che nel nostro secolo i predicatori e gli avvocati facciano la principal professione, mi sembra che il lento sarebbe miglior predicatore, e l'altro migliore avvocato: per il fatto che la professione del primo gli dà tutto il tempo necessario per prepararsi, e poi il suo discorso si svolge ininterrotto e di seguito, senza pausa, mentre gli interessi inducono l'avvocato a scendere in lizza in ogni frangente, e le risposte impreviste della parte opposta lo sviano, per cui gli occorre prendere all'improvviso un altro partito.Però nel colloquio di papa Clemente e del re Francesco a Marsiglia avvenne l'esatto opposto: ossia che il signor Poyet, uomo che aveva trascorso l'intera sua vita in tribunale, e che godeva d'una gran fama, incaricato di tenere il discorso al papa, lo aveva pensato a lungo, anzi, stando a quel che si dice, lo aveva portato già pronto da Parigi: ma il giorno stesso in cui doveva pronunciarlo, il papa, timoroso che si parlasse di cosa che potesse offendere gli ambasciatori degli altri principi, che gli erano intorno, fece conoscere al re l'argomento che gli pareva più idoneo per il tempo e per il luogo, ma che casualmente era tutt'altro che quello su cui il signor Poyet si era preparato; e così il suo sermone diventava vana e gli occorreva farne alla svelta un'altra. Ma poiché si sentiva incapace di ciò, fu necessario che il signor cardinale du Bellay si assumesse l'incarico. (b) La parte dell'avvocato è più difficile di quella del predicatore, ma ciononostante noi troviamo, a mio avviso, più avvocati passabili che non predicatori passabili, almeno in Francia. (c) Pare che sia più tipico dello spirito avere l'elaborazione pronta e sollecita, e più tipico del giudizio averla lenta e posata. Ma chi resta completamente muto se non ha agio di prepararsi e così colui al quale il tempo non dà il privilegio di dir meglio sono entrambi casi particolari. Si narra di Severo Cassio che parlava meglio senza averci riflettuto; che doveva più alla fortuna che non alla propria diligenza; che gli era utile essere interrotto mentre parlava e che i suoi nemici avevan paura di punzecchiarlo, per timore che la collera gli raddoppiasse l'eloquenza. Per esperienza io conosco questa disposizione naturale, che non può sopportare una vigorosa ed elaborata premeditazione. Se non procede lieta e libera, non perviene a nulla di buono. Diciamo di alcune opere che puzzano d'olio e di lucerna, per una certa asprezza e grettezza che il lavoro imprime a quelle in cui ha gran parte.

 Ma, oltre a ciò, la preoccupazione di far bene, e quel conato dell'anima troppo legata e troppo assorbita dal suo proposito, la comprime, la inibisce e la vincola come succede all'acqua che, a furia di spingere con la sua potenza e abbondanza, non riesce a trovar l'uscita in uno sbocco. In questa disposizione di natura di cui parlo si al contempo anche questo, che essa non vuol essere turbata e pungolata da passioni forti, come l'ira di Cassio (perché tale impulso sarebbe troppo veemente); essa non vuol essere scossa, ma sollecitata; vuol essere riscaldata e ridestata da occasioni esteriori, attuali e casuali. Se procede da sé non fa che trascinarsi e languire. L'agitazione è la sua vita e il suo piacere. (b) Io non sono pienamente signore di me stesso e dei miei impulsi. Il caso ha più potere di me in ciò. L'occasione, la compagnia, lo stesso tono della mia voce traggono dal mio spirito più di quanto vi trovo quando lo esploro e lo uso per mio conto. (a) Così le parole sono preferibili agli scritti, se può esservi scelta dove manca il pregio. (c) Mi capita anche questo: non mi trovo dove mi cerco; e trovo me stesso più per caso che per l'investigazione del mio giudizio. Posso aver gettato là qualche arguzia nello scrivere. (Voglio dire: spuntata per qualcuno, acuta per me. Ognuno dice ciò secondo le proprie capacità). L'ho smarrita al punto di non sapere che cosa ho voluto dire; e un estraneo talvolta l'ha scoperta prima di me. Se usassi il raschietto ogni volta che ciò mi accade, mi cancellerei del tutto. L'occasione mi offrirà qualche altra volta luce più chiara di quella del mezzogiorno; e mi farà stupire del mio esitare.
(Montaigne, Saggi)

 

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