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Michel Eyquem de Montaigne (Bordeaux, 28 febbraio 1533 – Saint-Michel-de-Montaigne, 13 settembre 1592) è stato un filosofo, scrittore e politico francese noto anche come aforista. Lo scopo dichiarato della sua opera è "descrivere l'uomo, e più particolarmente se stesso". "L'argomento del mio libro sono io" scriverà nelle prime pagine dei Saggi, ed in essi parlerà a lungo delle sue caratteristiche fisiche, del suo temperamento, dei suoi sentimenti, delle sue idee e degli avvenimenti della sua vita. Il suo fine è quello di conoscersi e di conquistare la saggezza. Il sentimento di una vita pienamente accettata e quindi goduta, la serena attesa della morte, considerata un evento naturale da attendere senza timore, rendono questo libro estremamente umano.
Montaigne stima che la variabilità e l'incostanza sono due delle sue caratteristiche principali. Egli descrive la sua debole memoria, la sua capacità di sciogliere i conflitti senza farvisi implicare emotivamente, il suo disgusto per gli uomini che inseguono la celebrità e i suoi tentativi per distaccarsi dalle cose del mondo per prepararsi alla morte. Il suo celebre motto: "Che cosa conosco?" appare come il punto di partenza di tutto il suo pensiero filosofico.
L'opera del filosofo dà al lettore l'impressione che l'attività pubblica abbia impegnato l'autore esclusivamente nel tempo libero, mentre la sola cosa essenziale per Montaigne rimane la conoscenza di sé e la ricerca della saggezza. Nei Saggi viene raffigurato un uomo in tutta la sua complessità, consapevole delle sue contraddizioni, animato da due sole passioni: la verità e la libertà.
«[...] sono così assetato di libertà che mi sentirei a disagio anche se mi venisse vietato l'accesso ad un qualsiasi angolo sperduto dell'India [...]» |
«Malgrado la sua lucidità infallibile, malgrado la pietà che lo sconvolgeva fino in fondo all'animo, egli ha dovuto assistere a questa spaventosa ricaduta dell'umanesimo nella bestialità, a uno di quegli eccessi sporadici di follia che prendono a volte l'umanità (...) è questa la vera tragedia della vita di Montaigne» |
(Stefan Zweig, «le Monde d'hier — Souvenirs d'un Européen», trad. de Serge Niémetz, Belfond, p. 534) |
Come se avessimo il tocco infetto, noi corrompiamo, maneggiandole, le cose che di per sé sono belle e buone. Noi possiamo acquisire la virtù, in maniera tale da renderla viziosa: se l'abbracciamo con un desiderio troppo aspro e violento. Quelli che sostengono che non vi è mai accesso nella virtù, poiché se c'è l'eccesso non è più virtù, si divertono con le parole: Insani sapiens nomen ferat, æquis iniqui, Ultra quam satis est, virtutem si petat ipsam. E' una sottile considerazione della filosofia. Si può sia amar troppo la virtù sia comportarsi smisuratamente in un'azione giusta. A questo senso s'accorda la voce divina, "Non siate più saggi di quanto occorra, ma siate sobriamente saggi". (c) Ho visto un grande danneggiare la fama della propria religiosità mostrandosi religioso al di là di ogni esempio degli uomini come lui. Amo le nature temperate e medie. L'immoderatezza nel bene stesso, se non m'offende, mi stupisce e me mette in imbarazzo su come battezzarla. Né la madre di Pausania, che per prima propose la morte del figlio e portò la prima pietra: né il dittatore Postumio, che fece morire il suo, che il giovanile ardore aveva spinto con buoni esiti sui nemici, un po' avanti alla sua schiera, mi paiono giusti quanto strani. E non amo consigliare, né esercitare una virtù così selvaggia e così cara. L'arciere che oltrepassa il bersaglio, fallisce alla pari di chi non ci arriva. E la vista mi si confonde tanto se salgo improvvisamente verso una luce potente quanto se scendo all'ombra. Callicle, in Platone, asserisce che l'eccesso in filosofia è dannoso: e consiglia di non immergersi in essa oltre i limiti del profitto: che, presa con moderazione, è piacevole e utile: ma alla fine rende un uomo selvatico e vizioso: sdegnoso verso le religioni e le leggi comuni: nemico della conversazione coi cittadini: nemico dei piaceri umani: incapace di ogni forma di governo politico, e di recar soccorso agli altri e a se stesso: tale da lasciarsi prendere a schiaffi impunemente. Dice il vero: infatti, nel suo eccesso, essa schiavizza la nostra naturale libertà: e ci svia, mediante un'inopportuna sottigliezza, dal percorso bello e piano che la natura ci ha tracciato. (a) L'amore che nutriamo per le nostre mogli è del tutto legittimo: la Teologia, però, non tralascia d'imbrigliarlo e di ridimensionarlo. Mi pare di aver letto qualche tempo fa in san Tommaso, in un passo in cui condanna i matrimoni contratti tra parenti entro i gradi proibiti, questa ragione, fra le altre: che l'amore nutrito per una tale donna risulti smodato: infatti, se l'affetto del marito si trova intero e perfetto, come deve; e ad esso si aggiunge pure quello che si deve alla parentela, non vi è dubbio alcuno che questo aumento porterà un tal marito al di là delle barriere della ragione. Le scienze che regolano le usanze degli uomini, come la Teologia e la Filosofia, badano a tutto. Non vi è azione così privata e segreta che si sottragga alla loro conoscenza e giurisdizione. (c) Sono proprio dei principianti quelli che criticano la loro libertà. Sono le donne a comunicare con generosità le loro grazie a chi le vuole godere, ma non a chi le vuol curare, glielo impedisce il loro ritegno. (a) Desidero quindi, facendo leva su queste scienze, insegnare ai mariti questo, (c) se ancora ne esistono che vi si scaldino troppo: (a) che gli stessi piaceri provati in intimità con le loro donne sono criticati, se non è rispettata la moderazione; e che vi è di che peccare in licenza e in sregolatezza, come in una cosa illegittima. (c) Quelle carezze sfrontate, che il primo ardore ci consiglia in quel gioco, sono non soltanto indecenti, ma addirittura dannose se praticate alle nostre donne. Almeno, ch'esse apprendano la sfrontatezza da un'altra mano. Sono sempre sufficientemente sveglie per le nostre esigenze. Io non mi sono avvalso di nulla all'infuori delle istruzioni della natura e della semplicità. (a) E' un vincolo religioso e devoto il matrimonio: ecco perché il piacere che ne deriva deve essere un piacere moderato, serio e commisto ad una qualche severità: deve essere un diletto in qualche maniera prudente e coscienzioso. E dal momento che il suo obiettivo precipuo è la generazione, c'è chi mette in dubbio se, qualora siamo senza la speranza di tale frutto, come quando le donne hanno superato la giusta età o sono incinte, sia consentito ricercarne l'accoppiamento. (c) Secondo Platone è un omicidio. (b) Certe popolazioni (e, tra le altre, i Maomettani) (b) disprezzano il congiungimento con le donne incinte. Parecchi anche con quelle che hanno le mestruazioni. Zenobia non accoglieva il suo consorte che per un rapporto solo; fatto questo, lo lasciava girovagare per tutto il tempo della gestazione, concedendogli solo allora di riprendere: bell'esempio generoso di matrimonio. (c) E' da qualche poeta bisognoso e affamato di tal piacere che Platone desunse questa storia: Giove un giorno fece un assalto così focoso su sua moglie che, non potendo pazientare che lei raggiungesse il letto, la rovesciò sul pavimento: e per la violenza del piacere scordò le risoluzioni grandi e importanti che poco prima aveva preso con gli altri dèi nella sua assemblea celeste: vantandosi di avere in quel frangente goduto altrettanto di quando per la prima volta le aveva fatto perder la verginità di nascosto ai genitori. (a) I re di Persia convocavano le loro mogli a prender parte ai loro banchetti, ma quando il vino arrivava a riscaldarli per bene e non potevano più trattenersi dallo sbrigliare il piacere, le rimandavano nei loro appartamenti; per non farle partecipi dei loro desideri smodati; e facevano venire al posto loro delle donne per le quali non avessero un tale obbligo di rispetto. (c) Tutti i piaceri e tutti i favori non sono ben disposti in ogni tipo di persona: Epaminonda aveva fatto incarcerare un giovane scostumato; Pelopida lo pregò di ridargli la libertà in favor suo, ma egli rifiutò, e poi accordò questa grazia ad una sua donna che gliel'aveva anche lei richiesta: dicendo che si trattava di un favore dovuto ad un'amica, non a un capitano.
(c) Sofocle, che fu compagno di Pericle nella pretura, vedendo casualmente passare un bel giovane: "Guarda che bel giovane!" disse a Pericle. "Andrebbe ben per un altro, ma non per un pretore", gli disse Pericle, "il quale deve avere non solo le mani, ma anche gli occhi casti". (a) L'imperatore Elio Vero, dal momento che sua moglie si lamentava del fatto che egli cedesse all'amore di altre donne, le rispose che lo faceva per motivi di coscienza, perché il matrimonio era un nome di onore e di dignità, non di folle e lasciva concupiscenza. (c) E la nostra storia Ecclesiastica ha conservato con onore il ricordo di quella donna che ripudiò il proprio marito perché non voleva sostenere amori troppo licenziosi e dissoluti. (a) Non vi è insomma alcun piacere così legittimo che in esso l'eccesso e l'intemperanza non risultino per noi riprovevoli. (b) Ma, a parlare in coscienza, l'uomo non è forse un animale miserabile? Gli è appena possibile per la sua condizione naturale gustare un solo piacere intero e puro, e si mette in pena per diminuirlo coi ragionamenti: non è abbastanza misero se con arte e con studio non accresce la propria miseria, Fortunæ miseras auximus arte vias. (c) La saggezza umana fa molto scioccamente l'ingegnosa quando si esercita a diminuire il numero e la dolcezza dei piaceri che ci appartengono: come invece con buoni risultati e industriosamente si avvale dei suoi artifici per camuffare e imbellettare i mali e ad alleviarne la sensazione. Se io fossi stato capo di una setta, avrei imboccato un'altra via, più naturale, ossia vera, comoda e santa: e forse mi sarei fatto abbastanza forte per stabilirne i limiti. (a) Che dire del fatto che i nostri medici, dello spirito e del corpo, come per un complotto macchinato tra loro, non trovano alcun modo per curarci né alcun rimedio alle malattie del corpo e dell'anima, se non mescolandoli a tormento, dolore e pena? Le veglie, i digiuni, i cilici, gli esìli lontani e in solitudine, le perpetue prigioni, le verghe ed altre torture sono state introdotte per questo motivo: ma a condizione che siano davvero torture e che vi sia dolore straziante; (b) e che non accada come a un tal Gallione: esiliato sull'isola di Lesbo, si seppe a Roma che laggiù egli si dava alle pazze gioie, e che quello che gli era stato inflitto come punizione gli tornava a vantaggio: perciò risolsero di richiamarlo presso sua moglie a casa sua, e gli comandarono di restarvi, perché la loro punizione si accordasse con ciò che lui ne risentiva. (a) Infatti per chi il digiuno migliorasse la salute e l'allegria, per chi il pesce fosse più invitante rispetto alla carne, la ricetta non potrebbe essere maggiormente salutare: non diversamente che nell'altra medicina, i farmaci non sortiscono alcun effetto su chi li assume con desiderio e piacere. L'amarezza e la difficoltà sono circostanze che servono al loro agire. La natura che accettasse il rabarbaro come cosa familiare ne diminuirebbe l'utilità; occorre che una cosa vulneri il nostro stomaco per sanarlo; qui non è valida la regola comune, che le cose si guariscono con i loro contrari, poiché il male guarisce il male. (c) Quest'opinione in qualche modo si ricollega a quell'altra antichissima per cui si crede di esser graditi al Cielo e alla natura massacrandosi e uccidendosi, opinione universalmente accettata da tutte le religioni. (C) Ancora al tempo dei nostri padri, Amurat, alla presa dell'istmo, immolò seicento giovani greci all'anima di suo padre, perché quel sangue servisse a propiziare l'espiazione dei peccati del morto. (b) E in quelle nuove terre, scoperte ai nostri tempi, ancora pure e vergini in confronto alle nostre, quest'uso è seguito, in misura diversa, dappertutto; tutti i loro idoli si abbeverano di sangue umano, non senza differenti esempi di tremenda crudeltà. Li ardono vivi e, mezzi arrostiti, li ritirano dal fuoco per strappar loro il cuore e le viscere. Altri, soprattutto le donne, sono scorticati vivi, e con la loro pelle sanguinante si rivestono e si mascherano altri. E non mancano esempi di risolutezza e di decisione. Infatti, quei poveretti destinati al sacrificio, vecchi, donne e bambini, vanno essi stessi, alcuni giorni prima, alla questua per l'offerta del loro sacrificio, e si presentano al macello cantando e danzando insieme con chi vi assiste. Gli ambasciatori del re del Messico, per far capire a Fernando Cortez la grandezza del loro sovrano, dopo avergli riferito che aveva trenta vassalli, ciascuno dei quali poteva radunare centomila guerrieri, e che era nella città più bella e più forte che sorgesse sotto il Cielo, aggiunsero che poteva sacrificare agli dèi cinquantamila uomini all'anno. In verità, si narra che egli cercasse la guerra con certi grandi popoli vicini non soltanto per tenere in esercizio la gioventù del paese, ma soprattutto per aver di che provvedere ai suoi sacrifici con i prigionieri di guerra. Altrove, in un certo villaggio, per dare il benvenuto al succitato Cortez, vennero sacrificati cinquanta uomini in un colpo solo. E racconterò ancora questo: alcuni di questi popoli, da lui vinti, inviarono ambasciatori per riconoscerlo e domandargli amicizia; i messaggeri gli presentarono tre tipologie di doni, in questo modo: "Signore, ecco cinque schiavi; se tu sei un Dio feroce, che ti cibi di carne e di sangue, mangiali, e noi te ne recheremo altri; se sei un Dio mite, ecco dell'incenso e delle piume; se sei uomo, accetta questi uccelli e questi frutti".
(Montaigne, Saggi)
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