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11 maggio 1908, nasce Ludovico Geymonat: "Cosa ho pensato dopo Hiroshima"

11 maggio 1908, nasce Ludovico Geymonat: "Cosa ho pensato dopo Hiroshima"

Nacque a Torino da Giovanni Battista, un geometra liberale e antifascista di origini valdesi, e da Teresa Scarfiotti, una donna cattolica molto devota. Frequentò la scuola privata del Divin Cuore e poi l'Istituto Sociale, un liceo classico torinese gestito dai gesuiti, dal quale fu espulso l'ultimo anno di corso a causa di un tema su Giovanna d'Arco non in linea con l'ortodossia cattolica e così conseguì la maturità nel Liceo classico Cavour nel 1926.

Si laureò all'Università di Torino in filosofia nel 1930 con la tesi Il problema della conoscenza nel positivismo, discussa con il professor Annibale Pastore, e in matematica nel 1932, discutendo con Guido Fubini la tesi Sul teorema di Picard per le funzioni trascendenti intere. La sua scelta di unire, nella sua ricerca, filosofia e scienza, tenute separate in Italia dall'imperante cultura idealistica del tempo, quella gentiliana che, con la sua riforma della scuola, aveva privilegiato la cultura umanistica, e quella crociana, con la sua concezione svalutativa della scienza, creatrice, ad avviso del filosofo abruzzese, di pseudoconcetti, mostra l'apertura europea delle prospettive di ricerca intravista allora da Geymonat e la sua estraneità al provincialismo culturale italiano.[senza fonte] Un rifiuto che egli estese anche alla politica del regime allora dominante:[senza fonte] Assistente di analisi algebrica nell'Università di Torino ma avversario del fascismo, rifiutò l'iscrizione al partito fascista - cioè di prendere la cosiddetta tessera del pane - vedendosi così preclusa la possibilità di una carriera accademica o di insegnamento statale. Si avvicinò altresì al filosofo piemontese Piero Martinetti, non tanto per comunanza di prospettive filosofiche quanto per averlo riconosciuto un esempio di impegno civile e morale, essendo stato il Martinetti tra i pochissimi professori universitari a rifiutare il giuramento di fedeltà al Fascismo. Nel 1934 andò in Austria per approfondire la filosofia neo-positivista del Circolo di Vienna diretto da Moritz Schlick, lo stesso anno in cui pubblicava La nuova filosofia della natura in Germania: a quell'esperienza seguì lo scritto del 1935 Nuovi indirizzi della filosofia austriaca.

Nel 1938 sposò Virginia Lavagna, dalla quale ebbe cinque figli (tra cui Mario Geymonat, filologo e studioso di Virgilio, e Giuseppe Geymonat, matematico), e dal 1940, iscritto clandestinamente al Partito comunista, si guadagnò da vivere insegnando matematica nella scuola privata «Giacomo Leopardi» di Torino, dove Cesare Pavese insegnava italiano. Nel periodo della seconda guerra mondiale, con il nome di battaglia Luca fu partigiano in Piemonte nella 105ª Brigata Carlo Pisacane e, dopo la Liberazione, assessore comunista al Comune di Torino dal 1946 al 1949 quando, vinto il concorso a cattedra, Geymonat fu nominato professore straordinario di filosofia teoretica all'Università di Cagliari. Dal 1952 al 1956 fu ordinario di storia della filosofia all'Università di Pavia, successivamente dal 1956 al 1978 tenne all'Università di Milano la prima cattedra di filosofia della scienza istituita in Italia. Partecipò alla fondazione del Centro di studi metodologici di Torino. Nel 1963 iniziò a dirigere la collezione di classici della scienza della casa editrice Utet di Torino. Negli stessi anni fu direttore del comitato di redazione dell'Enciclopedia della scienza e della tecnica. Morì nel 1991: è sepolto a Barge, in provincia di Cuneo

Minazzi. È ben nota la diversità del modo con cui alcuni intellettuali di diversa formazione reagirono immediatamente al bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki. Tu, in particolare, dopo questi bombardamenti, cosa hai pensato?
Geymonat. Naturalmente ho pensato che con quel nuovo tipo di armi sarebbe diventata veramente impossibile una guerra mondiale perché in tale evenienza il rischio sarebbe quello di determinare una catastrofe per tutto il nostro pianeta. Ma ho anche pensato che l'introduzione di queste nuove armi poteva essere una risoluzione estremamente grave della guerra in atto. In effetti ho però capito abbastanza presto che quelle armi in verità, erano state usate contro l'Unione Sovietica più che contro il Giappone. Il Giappone era infatti già praticamente sconfitto, mentre l'Unione Sovietica era, potenzialmente, vincitrice. Il Giappone era un falso bersaglio: il vero bersaglio era l'Unione Sovietica.
E opportuno ricordare come il clima della guerra e del durissimo scontro politico allora conclusosi tra le forze dell'antifascismo e quelle nazi fasciste inducesse molti di noi a leggere e interpretare l'utilizzazione delle bombe atomiche alla luce dei conflitti politici immediati e delle strategie di dominio mondiale che le grandi potenze del tempo avevano già cercato di imporre in modo evidente nel corso della stessa guerra contro i fascisti e i nazisti. Proprio per questa ragione le prese di posizione di Russell, di Einstein e sia pur ad un differente livello di Buonaiuti rischiavano di apparire del tutto avulse dal vero contesto politico che determinava le mosse internazionali delle potenze mondiali. Naturalmente non si tratta di negare valore a queste prese di posizione, ma di riconoscere che alcuni di noi (e certamente la stragrande maggioranza degli intellettuali che avevano attivamente partecipato alla guerra di Liberazione) colsero soprattutto il significato politico immediato dell'utilizzazione di queste bombe atomiche e la minaccia implicita in esse contenuta.
Minazzi. Ma, sia pur in questo contesto determinato dalla logica di dominio delle potenze mondiali per la spartizione del mondo in differenti "aree di influenza", vi fu immediatamente chiaro il carattere radicalmente innovativo di questo mezzo bellico e le conseguenze sconvolgenti che poteva determinare per il futuro dell'intera umanità?
Geymonat. Si, ci fu immediatamente chiaro, ma nel contempo non volevamo rinunciare a un doveroso realismo politico. Quello stesso realismo politico con il quale dolorosamente abbiamo dovuto fare i conti negli anni immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale, durante i quali abbiamo assistito alla vera sconfitta di tutte le istanze più profonde per le quali noi partigiani avevamo combattuto i nazisti e i fascisti. Parlo di "sconfitta" proprio perché queste istanze e questi desideri non riuscirono mai a tradursi in realtà e così all'indomani della caduta del fascismo dovemmo adattarci a vivere in uno stato in cui il fascismo istituzionale (cioè tutti gli apparati istituzionali creati dal fascismo) continuavano a godere di un ottimo stato di salute (si pensi ai codici, alle leggi, ai tribunali, alle scuole, all'università, ecc.) mentre la tradizionale classe conservatrice teneva ancora saldamente in mano le redini del nostro stato (naturalmente gabellato come "antifascista e democratico") senza aver mollato un briciolo del suo potere di classe. 

Minazzi. Ma la presenza (e l'utilizzo) della bomba atomica non induceva anche delle modificazioni profonde nella stessa visione marxista della realtà storica? D'altra parte tu, fin dagli anni Trenta, eri stato particolarmente sensibile al significato sociale e culturale della scienza, della tecnica e dei loro incessanti sviluppi. La costante attenzione da te prestata alla storia della conoscenza umana non ti induceva a considerare in modo più determinato il significato culturale, politico e sociale e filosofico dell'utilizzo dell'energia atomica per fini bellici (sia pur fini bellici immediati, legati alla politica concreta e quotidiana?
Geymonat. A mio avviso allora il problema era ormai quello di individuare l'avversario contro cui il marxismo avrebbe dovuto combattere. Si pensi per esempio alla stessa guerra di liberazione. Durante la lotta partigiana l'avversario era sì un avversario di classe, ma era anche un avversario di un determinato schieramento politico ben preciso: il nazi fascismo. Il nazismo non era soltanto una classe né era soltanto un rappresentante politico di una classe germanica particolare, ma era un fenomeno politico di più vasta portata mondiale che pure era riuscito a farsi anche il rappresentante di ben qualificati interessi della borghesia tedesca la quale, peraltro, non avrebbe saputo disfarsi del nazismo se non dopo aver constatato che quest'ultimo aveva effettivamente portato alla rovina più completa della nazione. In ogni caso di fronte alla minaccia totale (e immediata) rappresentata dalle forze nazi fasciste era nostro dovere combattere in modo sempre più determinato e decisivo con tutti i mezzi a nostra disposizione contro i nazi fascisti e ogni altra posizione per quanto potesse essere variamente "motivata" su un terreno astratto di analisi non poteva non configurarsi ai nostri occhi come una provocazione da respingere.
Minazzi. La presenza di ordigni atomici non ti ha indotto a ripensare anche sul piano filosofico il problema della violenza e della guerra, costringendoti quindi a rivedere anche la tradizionale visione marxista delle guerre di classe?
Geymonat. Senza dubbio il concetto di violenza veniva a cambiare radicalmente: con le bombe atomiche non ha più senso parlare di una violenza 1ocale" poiché si ha sempre a che fare con una violenza Il globale", tale da coinvolgere tutta l'umanità. Una violenza globale, dunque, che aveva però anche la capacità di far cambiare i rapporti tra le grandi potenze mondiali, donde la necessità di invitare la gente (filosofo incluso) a guardare in faccia alla realtà senza coltivare alcuna pia illusione. Naturalmente l'uso della bomba atomica aveva avuto il vantaggio di far terminare più rapidamente la guerra e questo vantaggio venne ampiamente illustrato anche dalle autorità sovietiche. Giunti al punto in cui si era giunti con la distruzione delle armate naziste non si trattava insomma più di continuare un massacro che inevitabilmente avrebbe avuto come conseguenza la sconfitta del Giappone. D'altra parte l'utilizzazione della bomba atomica rappresentava però un colpo che fatalmente cambiava non solo il corso della guerra ma di tutta la storia umana. Se sul piano della seconda guerra mondiale l'uso della bomba atomica pose fine immediatamente ad una guerra ormai politicamente conclusa, sul piano della storia complessiva dei genere umano l'utilizzazione di questi ordigni inaugurò invece una nuova epoca, nel corso della quale la guerra assume dei caratteri sempre più terribili tanto che in caso di conflitto nucleare la "vittoria", in realtà, non arreca più alcun vantaggio agli stessi "vincitori". Se dunque sul piano immediatamente politico connesso con la fine della seconda guerra mondiale si trattava unicamente di "chiudere" un certo ciclo di lotte (ormai sostanzialmente definito) con questo atto si inaugurò però anche un nuovo periodo in cui le guerre non avrebbero più avuto senso alcuno poiché una guerra, se proseguita, avrebbe comportato necessariamente una sconfitta di tutta l'umanità.
Questo fu compreso abbastanza bene da molti intellettuali europei. Ma che cosa sarebbe avvenuto dopo una pace atomica? Effettivamente questo problema non fu invece intuito con la necessaria chiarezza. Si è soltanto intuito che qualcosa di radicale cambiava nello sviluppo della storia. Ma nessuno degli intellettuali ebbe in genere la capacità di riflettere sui caratteri di fondo di questo nuovo periodo apertosi con l'utilizzo della bomba atomica. Che si trattasse di una svolta radicale nello sviluppo della storia dell'umanità fu naturalmente compreso da molte persone, ma l'esatta comprensione di cosa sarebbe poi concretamente avvenuto dopo costituiva un problema ben diverso, al quale non si era ancora in grado di dare una risposta soddisfacente. Non bisogna inoltre dimenticare che negli Stati Uniti esisteva pure una corrente di pensiero che pensava che quel dopo includesse necessariamente l'utilizzazione della bomba atomica contro l'Unione Sovietica per determinarne una catastrofe finale. La minaccia di utilizzare la bomba atomica contro l'Unione Sovietica fu in realtà una minaccia enorme e ci volle tutta la durezza del governo sovietico per non cedere a questa minaccia. Del resto non sarà privo di interesse ricordare che lo stesso Russell nel 1960, partecipando ad una tavola rotonda sulle questioni nucleari con la signora Eleanor Roosevelt, fu scandalizzato nell'ascoltare la moglie del Presidente americano che affermava di preferire che la razza umana andasse distrutta piuttosto di pensarla "preda del comunismo". Insomma: se per Russell poteva anche essere accettabile lo slogan provocatorio "meglio rossi che morti" va anche ricordato che vi era però chi gli ribatteva, con non minor polemica, meglio morti che rossi"!.

 Minazzi. Il realismo politico induce a rifuggire da tutte quelle posizioni per le quali le forzature volontaristiche potrebbero condizionare in modo determinante le guerre. In realtà, e forse in misura più rilevante, la forza economica e la potenza materiale degli stati determinano una specifica, differente, "capacità di guerra" dei singoli stati e occorre pertanto partire anche da una seria considerazione di queste cause materiali per ben comprendere i problemi che emergono oggettivamente nella nostra civiltà. In sostanziale accordo con questo realismo il filosofo dovrebbe quindi contribuire sia a squarciare ogni velo che nasconde le vere difficoltà della civiltà contemporanea. Conseguentemente nel corso degli anni della "guerra fredda" il primo dovere di un filosofo doveva essere proprio quello di contribuire a far percepire con maggior chiarezza le reali caratteristiche della situazione internazionale in tutta la sua drammaticità.
Geymonat. Sì, ma questo fu uno dei punti caratterizzanti anche della posizione di Stalin, che non si piegò mai di fronte alla minaccia del bombardamento atomico dell'Unione Sovietica e continuò pertanto a trattare con gli Stati Uniti da pari a pari. Questo è un carattere della politica staliniana che non può essere assolutamente dimenticato poiché in quel momento si poteva pensare che la guerra era finita con la vittoria assoluta degli Stati Uniti e quindi l'Unione Sovietica non avrebbe avuto altro da fare che arrendersi. Devo dire che personalmente non ho mai avuto la tentazione di giustificare l'atteggiamento di resa senza condizioni (da molti cortesemente suggerito all'Unione Sovietica) che pure avrebbe avuto un senso poiché sembrava che dal punto di vista delle forze militari in campo l'Unione Sovietica fosse talmente "sconfitta" e talmente "superata" (sulla carta) dalla forza delle armi americane, che "sensata" sarebbe stata appunto unicamente la resa dell'Unione Sovietica all'America. Questo atteggiamento sta alla base di tutta la politica tra queste due superpotenze mondiali che ha caratterizzato l'intero periodo della "guerra fredda". Per la verità questo atteggiamento non è scomparso improvvisamente proprio perché per vincerlo fu necessario che anche l'Unione Sovietica fosse in grado di produrre armi altamente sofisticate (atomiche incluse) pari a quelle americane. La guerra tra due potenze atomiche (non più una sola potenza atomica contro il resto del mondo) rappresenta infatti una "conquista" di enorme importanza epocale. Questa lotta tra pari chiude un periodo: il periodo dell'assoluta superiorità delle armi americane rispetto alle armi sovietiche e ha contemporaneamente aperto la possibilità di rapporti da pari a pari tra le due diverse nazioni riportando in primo piano il concetto della guerra. Senza dubbio come si è già accennato ci troviamo di fronte ad una accezione radicalmente nuova della guerra: la guerra è una catastrofe per tutta l'umanità ma ora, occorre aggiungere e l'aggiunta non è veramente di poco conto non più per una sola parte dell'umanità, ma per tutti gli uomini.
Minazzi. In questi anni che ne è della speranza della pace! Che dire dei vari movimenti pacifisti, Partigiani della pace inclusi?
Geymonat. Considerai sempre il pacifismo un'utopia. Questa corrente pacifista così spinta e così ingenua, mi apparve sempre incapace di comprendere le ragioni storiche delle guerre e dei grandi conflitti. In questo senso il pacifismo mi sembrava reggersi (e mi sembra reggersi tutt'ora) su di una mera astrazione da non prendersi realmente sul serio. A mio giudizio, sul serio andava invece preso il pericolo di uno schiacciamento dell'Unione Sovietica da parte dell'America con le sue armi potentissime. D'altra parte anche alla luce dell'esperienza della guerra contro i nazisti e contro i fascisti si era ben visto che l'ideale del pacifismo costituiva veramente una pia illusione dovuta ad una sostanziale incomprensione dei motivi profondi delle guerre.
Compresi abbastanza presto che lo sviluppo dell'umanità sarebbe stato dominato da questo realismo e questa constatazione mi permetteva di comprendere adeguatamente anche i meriti del governo tirannico dell'Unione Sovietica attuato da Stalin. Senza dubbio il modo di governare di Stalin fu "tirannico" in molti sensi e in molti aspetti della vita civile, tuttavia rappresentò anche in modo altrettanto indubitabile una validissima barriera contro un'altra tirannia (quella dell'imperialismo americano che spesso si celava anche nelle vesti di un ottimismo pacifista senza fondamento). Si badi: la tirannia degli Stati Uniti era mascherata ma era altrettanto feroce perlomeno quanto la dittatura di Stalin.Naturalmente nel dir questo non voglio dire che la speranza costituisca unicamente una componente di dissipazione totale. La speranza è anche, foscolianamente, "l'ultima dea": un pizzico di speranza non danneggia, tutt'altro. Ma è diverso se si pretende di vivere e di muoversi politicamente basandosi unicamente e totalmente sulla speranza ignorando la concretezza e la durezza della realtà. La speranza può essere un movente della storia e dell'azione umana ma non può pretendere di fagocitare tutto il mondo alla sua unica dimensione. Per questa ragione il movimento pacifista mi sembrava fortemente inconcludente sul piano politico. Questo spiega perché aderii immediatamente al movimento dei Partigiani della pace ma senza nutrire soverchie illusioni. Il movimento dei Partigiani della pace mi sembrava infatti possedere degli ideali nobili e belli anche se, contemporaneamente, mi parevano assai carenti le modalità politiche utilizzate per perseguire quei fini. Anzi, complessivamente mi sembrava un movimento alquanto confuso che a causa della sua confusione (connaturata alle premesse della sua stessa formazione) non avrebbe mai potuto perseguire concretamente i fini che pure, del tutto sinceramente, cercava di realizzare. Del resto questo movimento nel giro di pochi anni finì per estinguersi anche se contribuì in una certa misura ad un avanzamento della coscienza democratica presso alcuni strati della popolazione.
(Ludovico Geymonat, in Luigi Cortesi (a cura di), 1945: Hiroshima in Italia,. CUEN, Napoli 1995 Dialogo con Fabio Minazzi il 15 luglio 1991 in casa di Geymonat a Barge, Cuneo, e successivamente rivisto, integrato e corretto dagli Autori)

 

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