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Illecito disciplinare: patto di quota lite e compenso spropositato

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 Con sentenza n.206/22 il Consiglio Nazionale Forense ha affermato l'importanza della proporzione e della ragionevolezza nella pattuizione del compenso che "rimangono l'essenza comportamentale richiesta all'avvocato, indipendentemente dalle modalità di determinazione del corrispettivo a lui spettante, sicché l'eventuale patto di quota lite non può comunque derogare al divieto deontologico di richiedere compensi manifestamente sproporzionati".

Fonte https://www.codicedeontologico-cnf.it

I fatti del procedimento disciplinare

La vicenda riguarda un'avvocato nei cui confronti è stato presentato un esposto al Consiglio dell'Ordine per aver sottoposto al proprio cliente un patto sulla definizione del compenso nell'ambito di un procedimento di risarcimento del danno da sinistro stradale in cui è deceduta la moglie. Tale patto contempla sia il riconoscimento degli onorari di patrocinio come liquidati dall'assicurazione sia una ulteriore percentuale del 10% su quanto sarebbe stato liquidato al cliente per il risarcimento del danno parentale.

Il CDD ha ritenuto il compenso manifestamente sproporzionato rispetto all'attività svolta ed ha applicato all'incolpata la sanzione della sospensione dall'esercizio della professione per mesi due affermando in particolare che:

  1. l'accordo tra l'incolpata e il suo cliente contenesse una patto di quota lite e non una lecita pattuizione del compenso a percentuale,
  2. non sussistessero particolari attività tali da giustificare la richiesta di un compenso pari a sei volte quello tabellare e a circa un sesto del risarcimento conseguito dalla parte,
  3. le ulteriori attività eseguite dall'avvocato, relative alla gestione degli oneri funerari, risultano posti in essere spontaneamente nell'ambito di un rapporto di amicizia, esulando dall'attività professionale inerente il mandato ricevuto, per cui non afferenti al compenso professionale.

 Avverso la decisione del CDD la professionista ha presentato ricorso al Consiglio Nazionale Forense contestando in particolare che l'accordo economico sul compenso costituisse un patto di quota lite e ritenendo adeguato il compenso richiesto in quanto proporzionato all'attività svolta.

La decisione del Consiglio Nazionale Forense

Sul punto il Consiglio Nazionale Forense innanzitutto ha ravvisato che l'accordo sul compenso intercorso tra le parti costituisce un patto di quota lite vietato dall'art.13 L. n.247/2012 a norma del quale «sono vietati i patti con i quali l'avvocato percepisca come compenso in tutto o in parte una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa», pur essendo valida la pattuizione con cui si determini il compenso «a percentuale sul valore dell'affare o su quanto si prevede possa giovarsene, non soltanto a livello strettamente patrimoniale, il destinatario della prestazione». A questo proposito il Consiglio ha chiarito che l'inciso «si prevede possa giovarsene» indica che la suddetta percentuale può essere rapportata al valore dei beni o agli interessi litigiosi, ma non al risultato della prestazione professionale (Consiglio Nazionale Forense, sentenza n. 26 del 18 marzo 2014). Pertanto l'oggetto del divieto è la pattuizione del compenso costituito da una quota del bene oggetto della prestazione o della ragione litigiosa che nel caso del risarcimento del danno è, di norma, l'equivalente in denaro; laddove, poiché nel caso di specie la ragione litigiosa è costituita dal denaro, il compenso pari ad una percentuale del denaro è una quota della lite.

Tra l'altro il Consiglio ha messo in evidenza come la condotta contestata all'incolpata riguardi anche la manifesta sproporzione del compenso richiesto.

Dal punto di vista deontologico il Consiglio ha ricordato che il complesso delle norme deontologiche che regolano i rapporti tra avvocato e parte assistita in tema di compenso ruota su due principi cardine, quali:

a) il rispetto nella determinazione convenzionale del compenso dei canoni di lealtà, probità e correttezza (art. 9 nuovo CDF); e

b) la conformità del compenso liberamente pattuito inter partes a canoni di adeguatezza e proporzionalità rispetto all'attività professionale svolta o da svolgere (artt.29, quarto comma, in relazione all'art.25, primo comma nuovo CDF). 

Questi criteri, quindi, costituiscono vincolo comportamentale essenziale per l'avvocato in base ai fondamentali doveri di probità e correttezza, a difesa del cliente e della dignità e decoro della professione (Corte di Cassazione, SS.UU, sentenza n. 6002 del 4 marzo 2021), con la conseguenza che anche l'eventuale patto di quota lite non può comunque derogare al divieto deontologico di richiedere compensi manifestamente sproporzionati.

Ma quando un compenso può ritenersi sproporzionato o eccessivo? A questo proposito il Consiglio ha ribadito quanto già affermato in giurisprudenza, ossia che "il compenso può ritenersi sproporzionato o eccessivo ex art. 29 codice deontologico solo al termine di un giudizio di relazione condotto con riferimento a due termini di comparazione, ossia l'attività espletata e la misura della sua remunerazione da ritenersi equa; solo una volta che sia stato quantificato l'importo ritenuto proporzionato può essere formulato il successivo giudizio di sproporzione o di eccessività che, come ovvio, presuppone che la somma richiesta superi notevolmente l'ammontare di quella ritenuta equa" (Consiglio Nazionale Forense, sentenza n. 125 del 17 luglio 2020).

Nel caso di specie il Consiglio ha ritenuto corretto l'accertamento svolto dal CDD il quale ha rilevato 1) che il compenso richiesto dall'incolpata fosse manifestamente sproporzionato, 2) e che l'attività svolta dall'incolpata non fosse stata tale da giustificare la richiesta di un compenso così alto. Così decidendo, a parere del Consiglio, il CDD ha correttamente applicato il principio secondo il quale: "L'avvocato che richieda un compenso manifestamente sproporzionato e comunque eccessivo rispetto all'attività professionale svolta, pone in essere un comportamento deontologicamente rilevante perché lesivo del dovere di correttezza e probità" (Consiglio Nazionale Forense, sentenza n. 28 del 22 marzo 2022).

Conseguentemente il Consiglio Nazionale Forense rigettato il ricorso.

 

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