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Quel cellulare costava quanto un'utilitaria coreana senza optional, ma era la mia risposta a tutte quelle voci, non del tutto infondate, secondo cui avevo un approccio giurassico alla tecnologia. Stavolta, avrei zittito per sempre la moltitudine dei miei denigratori, sfoggiando tronfio il mio nuovo cellulare-palmare iper-tecnologico di ultima generazione, che mi avrebbe consentito di collegarmi con la NASA a velocità stratosferica, in tempo reale. Anche se, in effetti, non avevo alcuna necessità di collegarmi con la NASA, né in diretta né in differita.
Senza contare poi che per quelli della NASA risultavo essere un emerito sconosciuto e che quindi sarebbe stato davvero molto improbabile riuscire a parlarci.
Perché in realtà io faccio l'avvocato, non l'astronauta.
Alessandro Gordiani, quarantadue anni, avvocato penalista romano. Ecco chi sono.
Qualche tempo fa, un amico magistrato mi ha soprannominato "er Cacadubbi", vista la mia abitudine di mettere sempre in discussione le scelte e le strategie processuali mie e dei miei colleghi.
Cacadubbi. Mi piace.
Del resto, come ripeto sempre, il diritto non è matematica, due più due non sempre fa quattro. Un episodio, una condotta, uno stato psicologico, una legge sono sempre suscettibili di interpretazione. E, per definizione, l'interpretazione non è mai autentica, ma sempre soggettiva.
E allora, come si può essere sicuri di qualcosa nel campo del diritto? Non si può. Ecco il vero problema.
La mia certezza è quella di non avere certezze, sosteneva qualcuno molto più saggio di me, che poi però ha fatto una brutta fine.
Ma non è questo il punto. Sto divagando.
La colpa del prematuro decesso del vecchio cellulare era stata di mia figlia Ilaria, di anni due e mesi nove – e mi scuso per la deformazione professionale anche nel riferire l'età di mia figlia – a costringermi a quell'onerosissimo acquisto.
Il pomeriggio precedente avevo beccato la piccola in bagno mentre, del tutto indisturbata, suicidava il portatile immergendolo nella tazza del gabinetto.
Si era giustificata sostenendo, con disarmante candore, di voler verificare se le "lucine" del telefono funzionavano anche sott'acqua.
Avevo resistito all'impulso di colpire mia figlia con una potente testata sul nasino, come in un primo momento avevo pensato di fare, e avevo invece optato per una lunga e raffinata reprimenda, da padre severo ma giusto quale ritenevo di essere.
A giudicare dall'espressione della teppistella, per nulla impressionata dalle mie parole, avevo quasi immediatamente capito che sarebbe stata più utile dal punto di vista psico-pedagogico la prima opzione, quella relativa alla capocciata sul naso per intenderci.
Al termine del discorsetto, ero uscito dal bagno per raggiungere mia moglie Chiara in soggiorno, intenzionato a propinarle un interminabile cazziatone per omessa vigilanza, ma avevo rinunciato al mio proposito strada facendo, cioè dopo appena tre passi, visto che casa mia sarà lunga in tutto una ventina di metri scarsi.
D'altra parte, non sono mai stato un fine pedagogo. Soggetto iracondo e compulsivo forse sì, ma per il resto... Avevo con magnanimità deciso di soprassedere.
Anzi, avevo cercato di vedere l'aspetto positivo della faccenda: la possibilità di cambiare finalmente il mio vecchio cellulare e di mettermi una volta per tutte al passo con i tempi.
Infatti, uscendo dal negozio di telefonia con la scatola sotto braccio, pensai che in fondo non tutto il male vien per nuocere.
Il sole delle undici creava degli strani riflessi sul pavé di via Cola di Rienzo, come se la strada fosse bagnata.
L'amministrazione comunale, in uno slancio di ammirevole efficienza, aveva appena provveduto a ridipingere le strisce pedonali e la linea di mezzeria. Pavé più vernice per terra, l'incubo di tutti i motociclisti romani, la madre di tutte le prove d'equilibrio in caso di frenata, anche lieve. Del resto, gli infidi sanpietrini del pavé, disseminati come trappole in punti strategici, contribuivano a dare quell'immagine un po' retrò, così di moda, alla città eterna. Alla faccia dei poveri fruitori delle due ruote, che invece eterni non erano per niente e che rischiavano ogni giorno di rompersi le ossa.
Superando l'incrocio con via Cicerone, sullo sfondo, sul lato di piazza Cavour vicino al lungotevere, potei ammirare l'imponente mole del Palazzo di Giustizia, fin dalle sue origini soprannominato "er palazzaccio", sede della Suprema Corte di Cassazione. Si diceva che il palazzo, a causa dell'enorme peso dovuto ai materiali con cui era stato costruito – in prevalenza marmo – e alla posizione troppo vicina al greto del Tevere, stesse sprofondando, lentamente ma in modo inesorabile.
Una formidabile metafora sullo stato della giustizia italiana.
Mentre camminavo spedito verso il tempio del diritto, dove avrei dovuto compiere alcuni controlli di routine, mi convinsi che la morte per annegamento del mio vecchio e preistorico telefonino mi aveva consentito di compiere una vera e propria evoluzione darwiniana dal punto di vista tecnologico. Adesso avevo davvero un portatile all'avanguardia, che mi avrebbe consentito di sopravvivere nel difficile mondo contemporaneo, e nessuno tra gli amici e i colleghi avrebbe più potuto prendermi in giro impunemente.
Del resto, avevo visto molti conoscenti usare con estrema disinvoltura quei computer in miniatura e, consapevole del livello non eccelso d'intelligenza di buona parte di quei soggetti, non nutrivo alcun dubbio che anch'io avrei presto acquisito grande familiarità con l'uso di quel super-cellulare.
Mi sbagliavo purtroppo, avendo con ogni evidenza sopravvalutato la mia intelligenza o l'altrui deficienza, tanto che dopo nemmeno una settimana fui costretto a ritornare mestamente al negozio di telefonia, sconfitto anche se non disperato.
Ebbi molta fortuna, perché riuscii ad acquistare un telefono cellulare in offertissima. Si trattava d'un modello ormai fuori produzione, un vero e proprio avanzo di magazzino, che giaceva triste e sperduto nell'angolino più basso della vetrina, senza più speranze d'essere venduto.
Non appena l'avevo visto, il mio cuore si era riempito di tenerezza e di fiducia. Insieme potevamo ancora avere un futuro.
In verità, quello era proprio il modello di cellulare che faceva per me. Era leggero e compatto, come un pacchetto di sigarette, ed era possibile utilizzarlo sia per telefonare, sia per mandare messaggi, cioè aveva una funzione in più di quanto mi occorreva.
E buonanotte al collegamento Wi-fi con accelerometro nucleare, al touch screen con un milione di pixel, al vivafotting, al megaspinning con GPS incorporato e allo schermo da 35 pollici. La televisione già ce l'avevo a casa.
Tutto sommato per certe cose sono ancora un uomo abbastanza semplice.
Anche se di rado, riesco ad accontentarmi con poco.
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