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Dignità, probità e decoro: stile di vita dell’avvocato anche nella dimensione privata

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Fonte https://www.codicedeontologico-cnf.it/sospensione-per-lavvocato-che-renda-falsa-testimonianza/

Con sentenza n.58 del 13 maggio 2022 il Consiglio Nazionale Forense ha affermato che la condotta dell'avvocato che si presti, sebbene senza corrispettivo, a rendere in giudizio una falsa testimonianza, lede in modo grave i principi di dignità, probità e decoro, principi che non sottendono solo all'esercizio della professione forense, ma devono costituire lo stile di vita dell'avvocato anche nella dimensione privata.

I fatti di causa

La vicenda dalla quale trae origine la pronuncia del Consiglio Nazionale Forense ha riguardato un avvocato che ha reso falsa testimonianza in un giudizio per risarcimento del danno subito da un suo collega in un sinistro stradale.

Nell'ambito di questo giudizio l'avvocato ha testimoniato, dietro insistenza del collega, che l'incidente stradale occorso è stato causato da manovra di veicolo rimasto sconosciuto in modo tale da consentirgli di ottenere il risarcimento dei gravi danni personali subiti; ma la testimonianza è stata resa nonostante l'avvocato non potesse avere contezza della dinamica del sinistro in quanto egli era terzo trasportato sul veicolo e nel frangente dormiva.

L'aver tenuto tale condotta è costato all'avvocato non solo il rinvio a giudizio per reato di falsa testimonianza di cui all'art.372 c.p., ma anche l'esposto cui è conseguito il procedimento disciplinare per violazione degli artt. 5, 6 codice deontologico per aver testimoniato fatti non veritieri e comunque di cui non era a diretta conoscenza ed aver concorso al conseguimento ad un indebito risarcimento tramite prove che sapeva essere false. 

 Tuttavia, mentre nel giudizio penale è stato assolto in sede d'appello con la formula "perché il fatto non costituisce reato" essendo stata riconosciuta a suo favore della sussistenza dell'esimente di cui all'art.384 comma 2 c.p. (in quanto per legge egli non avrebbe dovuto essere assunto come testimone in sede civile perché portatore di un diritto risarcitorio proprio, quale soggetto terzo trasportato danneggiato nel medesimo sinistro); in sede disciplinare è stata applicata nei suoi confronti la sanzione della sospensione dall'esercizio dell'attività professionale per due mesi, tenuto conto delle circostanze della condotta e della assenza di precedenti disciplinari.

L'incolpato, che nel corso del dibattimento disciplinare ha ammesso la propria responsabilità dichiarando, tuttavia, di non aver lucrato alcunché dalla vicenda e di essersene pentito subito, ha proposto appello chiedendo l'annullamento della suddetta decisione e lamentando:

  • la violazione dell'art.653 c.p.p. che sancisce l'efficacia della sentenza penale di assoluzione nel giudizio disciplinare; e
  • l'illegittimità della sanzione ablativa disposta dal CDD e rivendicando di avere reputazione di persona corretta e affidabile anche nell'ambito del Foro. Così la vicenda è stata analizzata dal Consiglio.

La decisione del Consiglio

Quanto al primo motivo di impugnazione, il Consiglio ha ricordato che l'assoluzione perché il fatto non costituisce reato, riconoscendo l'ontologia del fatto, esclude la sola rilevanza penale, non anche quella disciplinare cui gli stessi fatti irrilevanti in sede penale possono dar luogo (CNF sentenza n.186/2021, n.88/2021; CNF sentenza n.245/2020, n.202/2019).  

 In merito alla condotta tenuta dal ricorrente il Consiglio ha ricordato che "il bene giuridico tutelato dal reato di falsa testimonianza è il normale svolgimento dell'attività giudiziaria" e che "la falsa testimonianza è delitto contro l'amministrazione della giustizia nell'ambito della quale l'avvocato riveste il primario ruolo di garante del corretto esercizio dei diritti delle parti."

Ne discende che il particolare e grave disvalore derivante dalla commissione del reato di falsa testimonianza sussiste sia quando la condotta antigiuridica venga posta in essere nell'ambito dell'esercizio professionale (a tal proposito l'art.60 L. n.247/2012 prevede l'applicazione della misura cautelare a seguito di sentenza di condanna di primo grado se il reato è commesso nell'esercizio dell'attività professionale) sia quando venga tenuta come privato cittadino.

Ciò in quanto i valori di probità, dignità e decoro devono costituire lo stile di vita dell'avvocato non solo nell'esercizio dell'attività forense, ma anche nella dimensione privata.

Questi sono i stati i motivi per i quali il Consiglio ha ritenuto la sussistenza della responsabilità disciplinare del ricorrente, la cui condotta non è stata posta in essere in qualità di avvocato, nonché la congruità della sanzione irrogata dal CDD, il quale, a parere del Consiglio, ha esaurientemente motivato in ordine alla gravità della condotta temperando il trattamento sanzionatorio alla luce del comportamento dell'incolpato, alle circostanze soggettive e oggettive nel cui contesto è avvenuta la violazione, all'assenza di precedenti disciplinari, nonché al fatto che l'incolpato è stato mosso da "malintesi solidarismi e dall'accorata mozione degli affetti da parte del collega essendo parimenti credibile che non abbia tratto alcun profitto personale dalla condotta".

Per questi motivi il Consiglio Nazionale Forense ha rigettato il ricorso.  

 

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