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Ricordai quando avevo visto lo studio per la prima volta. La porta praticamente cadeva a pezzi

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 Nell'accendere la mia amatissima Vespa PX 125 Arcobaleno, che circa vent'anni prima aveva visto i suoi giorni più fulgidi, notai con soddisfazione che non vi era traccia della solita macchia d'olio che sistematicamente si formava sul pavimento in corrispondenza del blocco motore.

Dato che non andavo dal meccanico dalla notte dei tempi – e ritenendo molto improbabile che qualcuno l'avesse fatto al posto mio e, soprattutto, a mia completa insaputa – ne dedussi che doveva trattarsi di un intervento divino.

Per scrupolo, mi chinai a controllare il piccolo oblò che segnalava il livello dell'olio e compresi che Dio non c'entrava nulla con la miracolosa sparizione della macchia. Era soltanto finito l'olio. Non avevo tempo da perdere in rabbocchi d'emergenza – che peraltro avrebbero presupposto l'improvvisa materializzazione dal nulla di una latta d'olio motore – quindi saltai su e partii ugualmente.

Per un attimo mi sentii orgogliosamente vicino a mio padre, che fino agli ultimi giorni di vita aveva cercato, invano, di "abituare" auto e moto di famiglia a marciare senza olio né benzina.

Un quarto d'ora dopo stavo parcheggiando sotto lo studio, in corso Vittorio Emanuele. Evitai di mettere la catena, ormai ridotta a un informe ammasso metallico unto e annerito. Che se la fregassero pure la mia scassatissima Vespa, se ne avevano il coraggio.

Salutai il portiere e raggiunsi lo studio salendo a piedi per le scale. Dopo una dura battaglia con Filippo, ero finalmente riuscito a convincerlo a cambiare la fatiscente porta d'ingresso e, soprattutto, a dotarla di una bella targa in ottone, che informasse le persone sull'attività che veniva svolta all'interno dell'appartamento.

 Ricordai quando avevo visto lo studio per la prima volta. La porta praticamente cadeva a pezzi e l'unica indicazione sulla targhetta sopra il campanello era costituita da un misero straccetto di carta con su scritto, rigorosamente vergato a mano, "Interno 13".

Aprii con le mie chiavi e immediatamente venni accolto dal sorriso di Chiara, la mia segretaria, nonché la mia quasi moglie e, tra un po' di mesi, la madre di mio figlio, o figlia, dato che ancora non sapevamo cosa ci avrebbe riservato il destino. Era stato Filippo a insistere perché la assumessimo come segretaria part-time e non l'avrei mai ringraziato abbastanza per quella sua provvidenziale insistenza. Chiara infatti è ottimista e solare, almeno quanto io sono invece iperrealista e ombroso. Dicono che gli opposti si attraggano e, forse, una volta tanto quello che dicono è vero.

Ricambiai il sorriso e chiesi se la signora Baldini fosse già arrivata. Chiara mi rispose che era arrivata da cinque minuti e che, per il momento, la stava intrattenendo l'avvocatessa Mori.

Mi diressi verso la stanza che condividevo con Patrizia, l'avvocatessa Mori appunto, e la trovai che cercava di tranquillizzare la mia potenziale cliente.

Patrizia era come al solito bellissima ed impeccabilmente vestita, con un tailleur chiaro e relative scarpe abbinate. C'era stato un momento, nel recente passato, in cui le nostre vite avevano rischiato di incrociarsi non solo professionalmente, ma poi ognuno di noi aveva scelto percorsi differenti. Adesso eravamo soltanto colleghi di studio anche se – com'è che si dice? – mai dire mai.

 Stringendo la mano di Agnese Baldini fui colpito dal suo profumo, fresco e delicato, nonostante la tensione che probabilmente la attanagliava in quel momento per lei così drammatico. Era rimasta una gran bella donna, proprio come me la ricordavo, anche se, a prima vista, doveva essere ormai vicina ai quarant'anni.

"Allora, signora, ha potuto parlare con suo marito?", le chiesi per entrare subito in argomento.

"Sì. Mi ha chiamato subito dopo avere attaccato con lei. Gli ho detto di fare la sua nomina come legale di fiducia e anche lui aveva pensato la stessa cosa. Abbiamo entrambi un buon ricordo di lei, avvocato".

"Meno male" – commentai con un sorriso – "Le ha detto dove l'avevano portato?"

"A Regina Coeli".

"Bene. Cioè male" – mi corressi – "Le ha detto di cosa è stato accusato?"

"Dell'omicidio di un certo Giuseppe Finotti, un promotore finanziario che saltuariamente aveva collaborato con l'agenzia immobiliare di mio marito e che era sparito dalla circolazione da un anno e mezzo circa".

"Che rapporti aveva suo marito con questo Finotti?"

"Nessuno che io sappia, a parte quelli professionali. Finotti, oltre che di investimenti, si occupava tra l'altro di far concedere mutui alle persone che avevano difficoltà ad ottenerli seguendo i canali tradizionali".

"Roba lecita?"

"Sì, sì per carità. Almeno per quanto ne so io. Si trattava solo di un lavoro d'intermediazione. Presentava le persone ai direttori di banca con cui aveva contatti".

"E' inutile fare supposizioni in questo momento. Dobbiamo rassegnarci ad aspettare di ricevere l'avviso di convocazione per l'interrogatorio e per l'udienza di convalida".

"E quando sarà?", domandò la donna con una certa preoccupazione.

"Domani o dopodomani. Sono cose che, per legge, debbono avvenire in tempi brevissimi. Stia tranquilla: già in quella sede suo marito potrà chiarire la sua posizione".

"Lei può parlarci prima dell'interrogatorio?"

"Non credo che me lo consentiranno" – risposi dubbioso – "In ogni caso, farò un tentativo".

"E' tutto così assurdo. Mi sembra di vivere in un incubo".

"Ha ragione signora" – cercai di tranquillizzarla, con scarsa convinzione – "Cercheremo di fare il possibile, glielo assicuro".

"Avvocato, siamo nelle sue mani".

Erano arrivate le cinque paroline magiche, Avvocato siamo nelle sue mani. Quelle che più mi caricavano di ansia, per non sentire più le quali, a un certo punto della mia carriera, me la ero data a gambe levate. Quei disgraziati – colpevoli o innocenti che fossero – riponevano nel loro avvocato ogni speranza, ogni aspettativa, insomma il loro futuro. E l'avvocato, attraverso le sue scelte, attraverso l'impostazione di una strategia difensiva, era in grado di influenzarlo quel futuro, rendendoglielo radioso, oppure incasinandoglielo per sempre.

E' chiaro che ti viene un po' di ansia. Vorrei vedere un altro al posto nostro.

Congedai la signora Baldini, con la promessa che le avrei fatto sapere quanto prima notizie circa suo marito e chiamai Patrizia per fare il punto della situazione. Era lei, infatti, all'interno del nostro studio a collaborare con me per il diritto penale, dato che Filippo si occupava prevalentemente, se non esclusivamente, di diritto civile e commerciale, rifiutando sdegnosamente ogni commistione, diretta o indiretta, con quello che lui considerava materia giuridica di serie B.

"Cara Patrizia, ci aspetta un nuovo calvario".

"Non essere sempre così melodrammatico!", rispose lei sbuffando.

"D'accordo, come non detto" – replicai conciliante – "Allora vorrà dire che il compito che ci aspetta si rivelerà una vera e propria scampagnata. Anzi, sai che ti dico? Perché non inforchiamo le biciclette e ce ne andiamo belli belli a Regina Coeli a vedere se riusciamo a parlare con Baldini? Sai le risate che ci faremo insieme a lui? Se me lo ricordo bene, oltre ad essere un bell'uomo, è anche un tipo molto spiritoso".

"Possibile che con te non esiste una via di mezzo?" – mi chiese Patrizia sconsolata – "Non ci riesci proprio a tenere al guinzaglio la tua sfrenata pazzia?"

"Nel concetto stesso di "sfrenato" è implicita l'impossibilità di un qualsiasi controllo", replicai, rallegrandomi con me stesso per il brillante espediente dialettico.

"Non cambierai mai" – commentò lei con un sorriso paziente – "Ma sono finiti da un pezzo i tempi in cui riuscivi a terrorizzarmi. Vado a prendere il casco e vengo con te".

Allora era proprio vero: ormai non mettevo più paura a nessuno.

 

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