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Con la sentenza n. 46051 depositata lo scorso 11 ottobre, la III sezione penale della Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi su un caso di violenza sessuale perpetratasi all'interno del focolare domestico, ha precisato che il legame coniugale non è idoneo a giustificare la pretesa sessuale dell'imputato, essendo di contro necessario, per il lecito compimento del rapporto sessuale, la costante presenza del consenso delle parti coinvolte, non esistendo, in particolare, alcun diritto potestativo del marito al soddisfacimento dei propri istinti sessuali.
Nel caso sottoposto all'attenzione della Cassazione, un uomo veniva imputato per i reati di cui agli art. 81, 609 bis e 56 - 609 bis, per aver costretto in più occasioni sua moglie a subire atti sessuali contro la sua volontà, minacciandola e picchiandola se non avesse acconsentito ai rapporti sessuali, e per avere - in un'occasione - compiuto atti diretti in modo non equivoco a costringerla nuovamente ad acconsentire a un rapporto sessuale, non riuscendo nell'intento per la reazione della vittima e l'intervento delle loro figlie.
Il Tribunale di Latina condannava l'uomo alla pena di anni 2 e mesi 6 di reclusione per il solo episodio di violenza sessuale tentata, ritenendo che non si potesse procedere rispetto al delitto di violenza consumata, per difetto di querela.
Tale condanna veniva pienamente confermata dalla Corte d'Appello di Roma.
Ricorrendo in Cassazione, l'uomo censurava la decisione della Corte di merito, ritenendo che la stessa, limitandosi a ripercorrere la sentenza del Tribunale, non avesse compiuto una autonoma valutazione del materiale probatorio, soprattutto in relazione alle dichiarazioni della persone offese, ritenute dall'imputato contraddittorie e prive di adeguati riscontri esterni.
In secondo luogo si eccepiva il vizio della motivazione della sentenza impugnata rispetto al mancato riconoscimento della desistenza volontaria, avendo la Corte fondato il proprio giudizio su mere supposizioni; si doleva, infine, per il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche.
La Cassazione non condivide le difese formulate dal ricorrente, ritenendo il ricorso inammissibile per manifesta infondatezza.
I Supremi Giudici sostengono, infatti, che le due sentenze di merito abbiano ricostruito i fatti di causa in maniera puntuale, chiara e aderente al materiale probatorio raccolto: la disamina dell'episodio illecito è avvenuta all'esito di un percorso motivazionale immune da censure, rispetto al quale peraltro la difesa ha sollevato doglianze generiche, fattuali e in ogni caso prive di adeguato conforto probatorio.
Analogo discorso va compiuto per la valutazione effettuata dal Tribunale e dalla Corte di Appello in relazione alla qualificazione giuridica della condotta che ha impedito il compiersi del reato, arretrandolo allo stadio del tentativo.
Nel corso dell'istruttoria è palesemente emerso, in relazione al tentativo di violenza sessuale, che, in quella occasione, allorquando per l'ennesima volta il marito insisteva per fare sesso con la consorte, malgrado il fermo e plateale rifiuto di costei, le loro figlie – allarmate per i litigi dei coniugi – si recavano presso la camera da letto e impedivano il completamento dell'aggressione fisica: le ragazze intervenivano mentre la madre era ancora in balia del padre, sottraendola a lui e portandola a dormire nella loro cameretta.
Di fronte a siffatte risultanze probatorie, gli Ermellini rilevano, quindi, che correttamente si è ritenuto che l'interruzione dell'azione illecita sia dipesa non da una volontaria iniziativa dell'imputato, ma dal tempestivo sopraggiungere delle figlie; d'altra parte – evidenzia la Corte – l'uomo non ha mai mostrato segni di pentimento e, al contrario, non ha avuto scrupoli nell'accusare i familiari, tra cui una figlia gravemente malata, pur di negare gli addebiti a suo carico.
In merito al riconoscimento delle attenuanti generiche, la sentenza in commento sottolinea come le stesse giammai possono essere concesse in relazione alle accertate gravi modalità del fatto, le quali attestano l'esistenza di un dolo particolarmente intenso e la mancanza del più elementare senso di rispetto della dignità della persona e della donna in particolare, usata come strumento di piacere.
Sul punto, gli Ermellini a chiare lettere affermano che il legame coniugale non è idoneo a giustificare la pretesa sessuale di uno dei coniugi: il lecito compimento del rapporto sessuale richiede la costante presenza del consenso delle parti coinvolte, non esistendo, in particolare, alcun diritto potestativo del marito al soddisfacimento dei propri istinti sessuali.
Compiute queste precisazioni, la Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente sia al pagamento delle spese di lite che al versamento, in favore della Cassa delle Ammende, di una somma pari ad euro 2.000,00, per esser il ricorso stato presentato "versando in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità".
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