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Perché un avvocato può difendere i "colpevoli" senza arrossire (da "Volevo fare l'avvocato")

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 È la solita, classica domanda.
Come fai a difendere una persona se sai che è colpevole? È banale, d'accordo, ma fa parte dell'immaginario collettivo.
Ogni volta rispondo sempre allo stesso modo: non mi interessa la realtà dei fatti. Mi interessa la realtà processuale, quella delle carte. Le ricadute morali o personali non devono comparire nella nostra testa, quando difendiamo.
Il professionista che difende un omicida – anche se conosce la sua colpevolezza – non può farsene influenzare. Cerca di trovare la via meno sanguinosa per il suo cliente. In questi casi, il più delle volte, la soluzione tecnica è la migliore. Si patteggia, si sceglie il rito abbreviato, si cercano le attenuanti capaci di diminuire la pena, si trovano gli strumenti per ot- tenere uno sconto di pena.
A volte l'impresa più ardua è indurre il cliente colpevole ad accettare una difesa tecnica.
Se ci si riesce, però, si spalancano davanti ai no- stri occhi strade proceduralmente incredibili, veri e propri tesori.
Se pensate che un reo all'ennesima potenza è stato assolto perché il corpo del reato – nelle more del processo – era stato distrutto per errore, capite di cosa sto parlando.
In ogni caso vorrei che fosse chiaro un concetto. L'avvocato difende, e difende soprattutto i colpevoli. Alla domanda su come si faccia a difendere un criminale si risponde che non ci si può porre un problema etico.
Un anno fa circa è uscito per i tipi della Longanesi un libro di un avvocato tedesco, Von Schirach, intitolato Il caso Collini. Narra la storia di un omicidio inequivocabile, dove il colpevole, italiano, non fa nulla per difendersi.
Non vuole fare nulla per difendersi.
L'esito è scontato, quasi matematico. Una condanna sicura. L'avvocato che deve difendere l'omicida è un giovane, e quell'omicidio è il suo primo caso.
Roba da restare storti per il resto della carriera.
Difficile poterne uscire. L'ha ucciso e basta. Quel giovane, tuttavia, ha una testa paziente.
Come tutti gli avvocati dei film dovrebbe possedere anche lui le tre qualità che si richiedono:le gambe di un cervo, il tempo di un flaneur (che per definzione non ha un cazzo da fare) e la pazienza di un ebreo.
Studia la storia personale del suo cliente e soprattutto quella della vittima. Riesce a portare a galla le nefandezze a cui l'assassinato si era lasciato andare contro la famiglia dell'assassino durante i tempi bui dell'Olocausto.
In quell'omicidio dato già per certo, quell'uomo aveva trovato una falla. All'inizio sembrava una vena quasi invisibile nella lorica dell'omicidio, poi una specie di ferita e infine una via per capire e uscire all'aria aperta.
L'assassino viene assolto perché aveva ucciso per essere stato due volte schiacciato, ferito e mutilato.
La prima volta perché si scopre che la sua vittima gli aveva ucciso padre e madre, la seconda perché quel delitto orrendo era caduto in prescrizione per un cavillo procedurale e quindi non gli restava che una giustizia personale.
Per non sentire più le grida di dolore dei genitori trucidati.
Anche nel caso più laido non possiamo tirarci indietro.
Non è facile farsi obbedire da un colpevole, soprattutto se si è di ufficio.
Mica ti dà fiducia uno che non ti ha mai visto e crede che tu stia lì in quanto pagato dallo Stato.
La classica situazione in cui il nostro cliente non ci obbedisce è quando si trova dietro le sbarre, al momento dell'udienza di convalida dell'arresto, e pensa di poter convincere il giudice.
L'indagato crede di potersi giocare lì le sue carte, a tutti costi. Non ha tempo di riflettere in quei secondi che gli bruciano addosso come una camicia avvelenata.
Ci si trova sempre nella saletta dei colloqui, in carcere, cinque minuti prima dell'udienza.
Di solito, se è inverno, fa freddo.
Siete lì con lui. È la prima volta che vi vedete. Una conoscenza all'improvviso.
Dietro le sbarre della finestra vedete uno spicchio
di cortile. Se vi avvicinate e la aprite, potete udire il vociare dei detenuti.
Da come vi presentate e gli parlate, può anche accadere che possa fidarsi di voi.
La situazione di solito è di tue tipi.
Il vostro uomo annuisce in silenzio, fa poche domande pertinenti.
Quando siete davanti al giudice, manterrà la de- cisione che voi gli avete suggerito e la strada sarà al sole.
Oppure. Il soggetto è iperagitato, smania, pian- ge o piagnucola, dice che vuole dire tutto al giudice perché non può non crederlo.
Quando gli spieghi che parlare equivale per lui a crocifiggersi da solo – il pericolo è elevatissimo – ti dice che va bene, non parlerà.
Appena seduti davanti al giudice vi (si) tradirà all'istante e sarà un fiume in piena. Dirà tutto e il contrario di tutto.

 Non possiamo farci niente.
La nostra linea di difesa dipende però anche da quelle dichiarazioni che l'uomo o la donna può rendere.
In un caso delicato i difensori che mi avevano succeduto si fecero un punto d'onore nel massacra- re la mia precedente linea difensiva perché il cliente aveva deciso di parlare all'interrogatorio di garanzia anche se contro il mio ammonimento.
Il colpevole a volte è tale anche perché coglione.
Infatti non soltanto ha commesso un reato, ma tace al suo difensore – l'unico pezzo di legno a cui potrebbe aggrapparsi mentre sta affogando – la verità.
Anche in questo è coglione, e anche un po' suicida. Abbiamo un vantaggio su di lui e sulla sua tendenza nichilista.
Le carte del processo, gli atti, i documenti, tutto ciò che ci consente di entrare nella realtà proces- suale senza bisogno del suo punto di vista o del suo parere.
Quelle carte vanno studiate a fondo, imparate a memoria, come se ci si dovesse preparare per soste- nere un esame.
In quel mare di parole e di fatti, state certi che – magari quando vi state radendo la mattina davanti allo specchio – scenderà su di voi un barlume che vi permetterà di imbastire una difesa o capire un passaggio che suonava strano.
Ciò che resta pericoloso – come una secca a filo d'acqua o una lima sorda – è il desiderio del cliente. Vi è capitato sicuramente una richiesta del tipo: "vorrei produrre il tal documento, la tale lettera, o una scrittura sempre esplosiva e risolutiva".
Le carte sono lì, le abbiamo studiate.
Le conosciamo come le gambe della nostra fidanzata. Il loro stato ci permette di capire quanto rischiamo e cosa possiamo chiedere.
Se decidiamo di aggiungere una lettera, scrit-ta da un testimone, non dimentichiamo che il suo contenuto verrà scrutato centinaia di volte, rivoltato come un guanto, fatto oggetto di contestazioni incrociate ed usato anche contro il nostro cliente. Occhio perciò.
Non possiamo essere così fessi da aggiungere del materiale in più a uno strato già spesso così e di cui conosciamo gli esatti componenti.
L'unica volta in cui mi sono fatto allettare a pro- durre un documento – che sembrava tranciante (ma lo sembrano sempre) – ho perso un processo impor- tante e quello stracazzo di pezzo di carta è diventata la testa d'ariete preferita dal Pm con cui darmi ad- dosso e far salire al cielo le urla d'indignazione per la flagrante contraddizione che avevo acconsentito a creare, io, il difensore dell'imputato.
Uno scemo patentato fui, altrochè.
Quel documento mi ha insegnato che non si aggiunge mai nulla, mai.

 Semmai si aspetta sulla riva di un fiume, come il cinese della storiella.
Oltretutto oggi le indagini difensive ci consento- no di conservare dentro un cassetto tutte le dichia- razioni che abbiamo acquisito in tal modo.
Come so che il cliente è colpevole? Sono arrivato fin qui senza toccare questo tasto cruciale.
Non sono un pranoterapeuta né tantomeno un veggente.
Agli inizi è capitato che mi mentissero spudoratamente e io ci credessi. Poi mi sono un po' ispessito ed ho cominciato a non credere più a nessuno. Anche se – quando penso di avere ormai imparato tutto e quanto siano colpevoli i nostri clienti – prendo ancora delle fregature.
Penso sia normale, altrimenti il mio lavoro lo delegherei ad un robot della saga di Asimov – tanto prima o poi arriveremo anche a quello – al quale mancherà sempre una cosa, un dettaglio prezioso ed insostituibile: il cuore.
Comunque. Lo so e basta, mi verrebbe da rispondere.
Ma non è così semplice. Dopo anni di penale l'istinto fa molto. Le carte ti dicono tanto ma non sono mai un oracolo.
Il cliente poi non ve lo dirà mai, mai e poi mai. Anche quando è reo fino al collo.
Le prime volte lo chiedevo e giustificavo una richiesta assurda (mi rendo conto oggi) con il fatto che – per difendere meglio chi mi trovavo davanti - avrei dovuto conoscere tutto, ma proprio tutto di quanto era accaduto. Ottenevo sempre risposte fantasiose o giuramenti d'altri tempi.
Diciamo quindi che parto dal presupposto che per me Tizio e Mevio siano colpevoli.
Almeno se verranno assolti, sarò anche più contento.

 

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