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Il penalista è un animale sociale.
Ha bisogno di eco come un cavallo di correre. Però deve sapervi resistere in nome della riservatezza.
I civilisti non sentono quelle sirene ammalianti che sono i cronisti di giudiziaria.
Prima di tutto perché le udienze civili non sono pubbliche come quelle penali ed in secondo luogo perché pubblicare qualcosa di civile è vietato.
A meno che non si tratti di personaggi pubblici oppure di eventi caratterizzati da una eco massmediaticamente appetibile.
Il penalista vive immerso dentro l'udienza pubblica. Tutti i giorni – nei corridoi dei tribunali – i pro- cessi sono affissi ai muri, come le pubblicazioni di matrimonio.
Sono appesi ai muri i fogli bianchi su cui puoi leggere i nomi degli imputati, dei giudici, dei testimoni e degli avvocati.
I reati contestati.
Chiunque, giornalista, amico, curioso, flaneur, parente può entrare in quelle aule dove si distribuisce giustizia e mettersi ad ascoltare un processo che è sempre un dramma a cuore o a cielo aperto.Di altri. I giornalisti sono una componente necessaria della giustizia.
Il carattere pubblico dei processi penali giustifica e nobilita in qualche modo la figura del cronista di giudiziaria.
Che diventa a volte una superfetazione di qualche avvocato con cui sviluppa un rapporto di amicizia o di prossimità.
Diciamo subito che il pericolo non esiste per il giornalista. Il rischio è tutto dell'avvocato.
Al primo processo si riceve la telefonata dal cronista di giudiziaria cittadino.
Il giorno dopo nome e cognome dell'avvocato vengono stampati in neretto brillante sulla cronaca locale. È come il bacio della donna ragno.
Puoi rischiare di non farne più a meno.
Con i giornalisti esiste un patto tacito, che non ci si confessa ma tutti i penalisti sanno che lo possono invocare, come quando si chiama pugno durante un gioco: io ti do la notizia ma se il processo è andato male non metti il mio nome.
Quando si è giovani avvocati e la stampa locale vi coccola, vi sentite importanti.
La gente fa mostra di leggere le vostre imprese e la cosa diventa motivo di orgoglio, anzi di vanità.
Si va sui giornali o per le sciocchezze oppure per le cose grosse.
Si parte dalla macelleria, però, e si deve possedere una testa lucida e nervi saldi per arrivare fino alle cose grosse senza farla fuori dal vaso.
Il chè – invece – può accadere eccome.
Si tratta di una specie di sindrome da giornali che diventa un po' come una droga.
Aprire il quotidiano alla mattina e ritrovarcisi fa piacere a tutti. Sappiatelo.
Tutti sono felici di avere la proprio fotografia e un
buon articolo sui propri processi.
Al riguardo esiste molta ipocrisia e diffidate di coloro che sostengono di non volerci andare o che comunque non parlano con i giornalisti.
Chi segue questa regola possiede una statura professionale che glielo consente. Nessuno, all'inizio, si sottrae alla goduria mediatica rappresentata dall'andare in cronaca. Ma – come dicevo prima – tutto ciò è molto pericoloso e incarna un serio rischio per l'avvocato che vuole fare bene il proprio lavoro.
Il primo rischio che si corre è l'invidia dei colleghi. È una creatura sempre ispida e dal riso verde che potete scorgere sui volti di quegli avvocati ai quali non fa mai piacere che l'avvocato Tizio – anche se
bravo – venga celebrato più di loro.
Per questo motivo la stampa non va usata come una droga ma assunta a dosi minime e con un senso sorvegliato della quantità.
Il secondo pericolo è la eccessiva prossimità con il cronista il quale deve fare notizia anche a prezzo di sacrificare qualcosa. Ricordatevi che le udienze sono pubbliche – quelle dibattimentali – ma ciò non vi esime dal segreto professionale. Molto spesso i cronisti cercheranno di persuadervi a infrangerlo prima di arrivare all'udienza.
Questo per "preparare" la notizia sicchè potrete essere indotti a dare una dritta di troppo al giornalista amico.
Il terzo incomodo sta nel fatto che se sviluppate una vicinanza troppo intima con un cronista in particolare, farete più fatica a dirgli di no.
La nostra professione è fatta di no che camminano sulla pelle.
Il quarto rischio, infine, è quello più subdolo di tutti perché implica un cammino da cui è difficile tornare indietro: parlo dell'ansia da notizia, ossia il desiderio subdolo di finire sulle pagine di cronaca per avere risolto una causa.
L'intervista è la massima aspirazione.
Una al momento giusto può dare buoni frutti, anche processuali. Un'apparizione in televisione, un articolo lusinghiero, possono indurre i clienti a venire da voi. Non è proprio così.
I processi si fanno nelle aule e poi – se del caso – sugli articoli dei giornali.
Un buon avvocato suda in studio ed in aula e finisce sui giornali di rimbalzo. Non li cerca mai.
Inoltre, sia chiaro, non tutti i giornalisti sono uguali.
Ci sono quelli obiettivi che scrivono la cronaca giudiziaria pulita e quasi asettica (fanno bene il loro mestiere), mentre altri ci mettono del loro.
L'esempio classico è il seguente.
L'avvocato Tizio è riuscito ad ottenere la scarcerazione per l'imputato Mevio: l'uso mirato del verbo riuscire cela un messaggio subliminale che si insinua nei neuroni del lettore.
Il caso più eclatante accadde parecchi anni fa. Un avvocato molto bravo aveva stabilito un con-
tatto quasi fraterno con un cronista che ne riportava tutte le gesta come se si trattasse di una specie di scriba al seguito dell'imperatore nelle terre degli infedeli.
Un giorno la penna probabilmente gli scivolò e scrivendo di un imputato condannato a qualche anno di prigione, chiosò che non era stato difeso dall'avvocato amico.
A parte eccessi di questo tipo, voglio dirvi una cosa. Uscire sui giornali è bello e fa piacere a tutti ma suscita – come vi dicevo – un vespaio d'invidie.
Bisogna esserci preparati.
Fioccano gli esposti di chi sui giornali non ci va mai. Oltretutto i cronisti – se dosati con parsimonia
–possono aiutare l'avvocato.
Conviene lasciar perdere la causa da quattro soldi o la direttissima di turno.
È meglio usare la stampa per un'intervista al vo- stro cliente – per esempio – prima di un'udienza im- portante per far comprendere come un fatto si sia verificato giovando alla ricostruzione difensiva.
Si tratta dell'unico uso legittimo da farsi perché può portare un beneficio concreto al vostro cliente.
Inoltre.
Avrete sempre il problema di parlare o non parla- re con i giornalisti quando vi cercano.
Se il caso scotta, state certi che vi cercheranno.
Anche qui, dipende da voi.
Se potete dire qualche cosa – che non infranga il segreto istruttorio – ditela pure. Non vi creerà danni e vi procurerà il favore del giornalista.
Se non potete dire nulla, ditelo altrettanto chiara- mente. E fermamente.
La situazione tipica resta quella per cui certi cronisti cercano di intimidirvi, dicendovi che se gli dite qualcosa di inedito tratteranno bene il vostro cliente sulla pagina.
Mandateli affanculo.
Siete voi che dovete filtrare le notizie e capire quando potete concederne un pezzo, un brandello che non sia dannoso né vietato.
Inoltre. Le notizie – inevitabilmente – escono anche dalle Procure e dalle forze dell'ordine.
D'altro canto il luogo comune per cui certe noti- zie appaiano sui giornali prima di arrivare al diretto interessato, è vera.
Voi siete in una situazione diversa, però. Avete in- cassato la fiducia di una persona che vi ha conferito un mandato e – in più – si riconosce in voi.
Fornire notizie sulla pelle di quell'uomo o quella donna che tutelate significa violare a tradimento il patto di fiducia tra avvocato e cliente che avete stipulato con loro. Perciò, se potete, evitate.
Vi faccio vedere – invece – come può servire la carta stampata ad un avvocato.
Un giorno mi invento (anche se non era un servi- zio del tutto nuovo ma per una realtà molto provinciale come la mia, sì) l'avvocato dei cani.
Avete capito bene. Decido di fornire tutela legale gratis ai cani maltrattati e quindi a coloro che richiedano un'assistenza per gli animali.
In tribunale partono subito le battute sull'avvocato dei cani che ha dovuto rivolgersi ai quadrupedi perché non riesce a trovare qualche bipede disposto a farsi difendere da lui. Ancora oggi – sono passati più di vent'anni – ogni tanto qualche maresciallo in pensione mi lancia la battuta, quando mi vede. Sorrido e ringrazio, garbatamente.
Mi riporta alla mia giovinezza.
Mi difendo con una frase per tutti: meglio essere l'avvocato dei cani che un cane di avvocato.
Molti telefonano e la mia trovata mi regala una soddisfazione che ancora oggi non ho dimenticato.
Mi chiamano un giorno da un canile. Vengono in studio due o tre persone che accusano una signora
benestante di avvelenare i cani. Naturalmente questo tipo di processo nasce e muore come una cau- sa indiziaria. Non esiste mai una prova, chessò una fotografia oppure un filmato. All'epoca i telefonini stavano cominciando a comparire ma servivano sol- tanto per telefonare e YouTube non esisteva neanche nella mente dei suoi inventori, probabilmente.
Facciamo il processo che si celebra soltanto sulla base di indizi e basta.
Inutile dirvi che ad ogni udienza avevamo una pagina, anzi un buon articolo in cronaca locale, dedicato al processo.
Quando il giudice emise la sentenza, condannò la donna e liquidò le spese alla parte civile, ossia al canile che mio tramite si era costituito come ente esponenziale di interessi.
Fu una vittoria emozionante – mi ricordo ancora oggi il viso di chi aveva firmato la querela, anzi mi ricordo il suo sorriso in aula – che mi lasciò addosso per parecchio tempo la sensazione di avere compiuto qualcosa di buono e non soltanto per me.
Un giorno – dopo la sentenza – suonano alla porta. Era la donna condannata, insieme al marito.
Dovetti fare una faccia davvero sorpresa, quando aprii la porta. Mi schermii subito e le dissi che non potevo parlarle perché aveva un avvocato e io avevo il dovere di comunicare soltanto con il mio collega. Mi disse che era stata autorizzata da questi a venire da me.
Alzai il telefono davanti a lei, dopo averla fatta accomodare, e chiamai il collega il quale mi confermò la circostanza.
La donna era venuta a pagarmi le spese liquidate. Dopo che mi ebbe firmato l'assegno, sia lei che il marito – il quale non si era perso un'udienza – mi dissero che avevano ancora una cosa importante da
dirmi.
"Complimenti, avvocato, lei è stato davvero bravo". E se ne andarono, così, come erano venuti.
Avevo circa ventotto anni.
Mi sentii sulla cima del cielo per circa una settimana. Avevo ricevuto l'onore delle armi da un avversario sconfitto che sapeva cos'era l'onore anche se era
stata condannata per avere avvelenato un cane.
I cani mi avevano ringraziato.
Non ho mai saputo se li avesse avvelenati davvero ma una cosa ebbi modo d'impararla da quella don- na che aveva saputo trovare la forza di rivolgermi un complimento: mai nascondersi quando si perde. Questa vittoria – comunque – la devo ai giornali.
E ai cani.
Voglio ancora rubarvi qualche istante sulla figura del cronista, in questo senso: chi decide di fare il penalista si sceglie sempre un giornalista che gli vada a genio.
È un po' come nel caso di Montalbano con Niccolò Zito, il cronista televisivo suo amico.
Ci si piace e ci si trova consustanziali.
Ogni penalista incontra sulla sua strada una specie di duplicato di sé che ne scrive le gesta. Altrettanto necessariamente è destinato a incontrare un terzo altro da sé – di cronista – che non capisce un cazzo e che scambia la penna, di cui dovrebbe conoscere la forza devastatrice, per vendette personali. Rimbaud diceva che Je suis l'autre, io sono l'altro.
Bene, nel caso dell'avvocato penalista l'assioma si
moltiplica per due.
Teniamo presente che il nostro giornalista o cronista del cuore lo incontriamo una volta soltanto nella vita.
È come un grande amore la cui magia si verifica a
un giro e poi non torna più.
Al massimo, questo sommo privilegio può esserci offerto due volte.
Ma si tratta di un'eccezione.
Il mio amore di giornalista cronista l'ho incontrato una volta.
È morto in autostrada per un incidente d'auto.
Un destino di lamiera l'ha scaraventato dentro una di quelle notizie a cui riusciva a cucire un po' di umanità.
Riusciva a trovarla nello sguardo smarrito di un ladro, dentro un assassino oppure quando sosteneva il muso di pietra di un criminale serio.
Michele era un grande cronista di nera con un corpo da uomo dei boschi e gli occhi di una sirena.
Un cronista di pura razza giudiziaria.
Quando mi telefonava aveva già sentito altre tre campane (i poliziotti, i carabinieri, il pubblico mini- stero): si era già fatto il quadro obiettivo della situazione. Ascoltava tutti, religiosamente.
Non scriveva un rigo su cui non avesse ascoltato tutti,e soprattutto non infieriva personalmente. Mai. Cercava la distanza dalla persona,dall'essere umano in difficoltà di cui doveva dare anche la temperatura del corpo senza toccarlo per dimostrarsi
veramente attendibile.
Naturalmente, non l'ho mai dimenticato e mi ad- dolora ancora oggi pensare a come sia morto.
Di fretta, senza neanche qualcuno a ricordarlo, lui che sapeva dirti in trenta righe come il mondo sarebbe andato, o come una persona si sentiva davanti al potere di un giudice che stava per giudicarlo.
Ogni tanto lo ricerco in qualche altro cronista e qualche volta mi ricordo di lui e dei suoi pezzi.
Michele prendeva buchi anche lui ma subito dopo ne restituiva un altro ai suoi concorrenti per- ché sapeva essere duttile.
Per potere comunque gestire con serenità i rap- porti con la stampa, dovete – bene o male – avervi avuto a che fare.
Dovete in qualche modo conoscerla da vicino, averla frequentata, averci fatto l'amore.
Altrimenti non ne sapete niente, come chi non è mai andato con una donna.
Dovete, in altre parole, esservi sporcati le dita d'inchiostro. Un penalista – all'inizio – è famelico.
È affamato e deve farsi le ossa. Credetemi, è così. Quando avrà avuto tante occasioni per comparire sul giornale, se è davvero coscienzioso nel suo intimo, si saprà barcamenare e maturerà la convinzione che i processi si fanno soltanto nelle aule dei
tribunali.
Chè tanto sui giornali ci arrivano da soli. Le notizie hanno gambe lunghe e veloci.
Schizzano via dai recinti d'ordinanza come antilopi alla sera, quando la savana s'imbruna.
Quando iniziamo la professione ci avvertono sempre di una cosa molto importante che – per una specie di tacito patto – va osservata sempre:mai denunciare un giornalista o un collega.
A volte non si può non violarla.
Quando arriva su di voi l'ora delle decisioni ir- revocabili, dovete svoltare, non potete stare in surplace.
Se un giornalista si comporta bene con voi, voi lo farete con lui. Se si comporta male, siete liberi di infrangere quel tabù.
Non violerete nessuna regola.
Vi sarà capitata senz'altro – poco dopo l'udienza – la classica telefonata del cliente che vi chiede se un certo cronista si possa querelare per l'artico- lo scritto di fresco, giammai obiettivo per il diretto interessato.
Di solito lo dissuadete dicendogli che l'udienza è pubblica e il pezzo offende soltanto la sua sensibilità già esulcerata ma in realtà è obiettivo.
Il più delle volte è davvero così.
Le persone – quando sono sotto pressione giudiziaria – vivono ogni evento, per quanto modesto, con una voglia imperiosa di farla pagare al mondo intero.
Il loro primo desiderio quando entrano in studio non è tanto quello di essere assolti, quanto di chie- dere i danni.
I giornalisti – in questi casi – finiscono per attizzarli a seconda degli articoli che scrivono.
Se il pezzo è informativo – come dovrebbe essere –nessun problema.
Se, al contrario, il cronista ci ha infilato un tocco d'artista ossia si vede visibilmente una vena perso- nale intinta nel fiele, dategli un colpo di filo ed avvertitelo:la prossima volta ti querelo.
Se lo rifà,nonostante il vostro cavalleresco avviso, querelate.
Il cronista poco obiettivo ha mille modi per di- mostrare la sua scarsa professionalità.
Sbaglia il vostro nome sul giornale, oppure lo omette.
Quest'ultimo è uno dei modi più gettonati per fare un dispetto ad un penalista.
Non menzionarlo – quando si parla di un pro- cesso dove il difensore è stato il deus ex machina
della situazione – equivale a negarne l'ontologica esistenza.
È come dire che Tizio si è difeso da solo.
Il cronista che si comporta in questo modo non rende mai un buon servizio perché pubblica una notizia monca:non vi permettete di telefonargli per questo motivo.
Dategli un buco, appena potete, ossia offrite le notizie divulgabili ai suoi concorrenti ma non a lui.
Se il vostro cronista stupidino inciampa in qual- che buco più grande degli altri, tornerà a più miti consigli.
Infine.
Pensate sia davvero così importante andare sui giornali?
Non è più importante, come diceva Tom Hanksin Philadelphia, riuscire a modificare la realtà mediante il diritto?
Quella è l'emozione più appagante.
Il giornale è lustrino e stelline ma il giorno dopo – con il vostro nome – ci incartano il pesce.
Una causa vinta, invece, dura a lungo, soprattutto dentro il cuore del cliente e scalda il vostro ogni vo ta che vi ritorna in mente. Fate voi.
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