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Secondo quanto affermato dalla Corte di Cassazione in una sentenza pubblicata lo scorso 2 maggio, ma resa nota solo qualche giorno fa (sentenza n. 11731\2024), l'applicazione del comporto ordinario al dipendente portatore di handicap, costituisce una discriminazione indiretta, stante la necessità di considerare il maggior rischio di morbilità legato proprio alla disabilità.
Il principio di massima è stato pronunciato all'esito di un procedimento instaurato da un lavoratore affetto da una doppia neoplasia cronica, il quale aveva impugnato il licenziamento irrogatogli per superamento del periodo di comporto.Il Tribunale accoglieva il ricorso e condannava la società datrice alla reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro e al pagamento, in suo favore, di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal licenziamento alla reintegrazione, oltre che al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.
La sentenza di primo grado veniva confermata anche dalla Corte d'Appello, la quale riteneva la sussistenza di una fattispecie di discriminazione indiretta in ragione dell'insufficienza, a norma dell'art. 2, secondo comma, lett. b) della Direttiva 2000/78/CE, nell'individuazione - in funzione del conseguimento della finalità legittima del contemperamento degli interessi contrapposti del lavoratore e del datore di lavoro alla base dell'istituto del comporto - nell'art. 21 CCNL applicabile, dello strumento appropriato e necessario di tutela della condizione di rischio del lavoratore svantaggiato, per la previsione di un arco temporale unico e indifferenziato anche per i periodi di malattia imputabili alla sua disabilità; né potendo, sempre secondo la Corte Territoriale, tale situazione essere bilanciata da un ulteriore periodo di aspettativa (non retribuita), indistintamente applicabile a lavoratori normodotati e disabili.Investita della controversia su Ricorso del datore di lavoro, rimasto soccombente in entrambi i gradi, la Suprema Corte di Cassazione - confermando quanto già stabilito dalla Corte d'Appello – ha rilevato, preliminarmente, che il comporto rappresenta un punto di equilibrio fra l'interesse del lavoratore a disporre di un congruo periodo di assenze per ristabilirsi a seguito di malattia o infortunio e quello del datore di non doversi fare carico a tempo indefinito del contraccolpo che tali assenze cagionano all'organizzazione aziendale.
Secondo i Giudici di legittimità, stante l'anzidetta funzione, il termine di comporto non può essere identico per tutti i dipendenti, dovendo essere differenziato per i lavoratori portatori di handicap, a fronte dei rischi di maggiore morbilità quale conseguenza della disabilità.
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Paola Mastrantonio, avvocato; amante della libertà, della musica e dei libri. Pensiero autonomo è la mia parola d'ordine, indipendenza la sintesi del mio stile di vita. Laureata in giurisprudenza nel 1997, ho inizialmente intrapreso la strada dell'insegnamento, finché, nel 2003 ho deciso di iscrivermi all'albo degli avvocati. Mi occupo prevalentemente di diritto penale. Mi sono cimentata in numerose note a sentenza, pubblicate su riviste professionali e specializzate. In una sua poesia Neruda ha scritto che muore lentamente chi non rischia la certezza per l'incertezza per inseguire un sogno. Io sono pienamente d'accordo con lui.