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Avvocati: quando i rapporti con la stampa e la TV violano il divieto di accaparramento della clientela?

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L'avvocato può fornire informazioni sulla propria attività professionale anche a mezzo stampa. Tuttavia, nei rapporti con gli organi di stampa, il professionista deve sempre rispettare i doveri di verità, correttezza, trasparenza, segretezza e riservatezza perché deve tener conto sempre della natura e dei limiti caratterizzanti l'obbligazione sottesa all'attività forense. Per tal verso l'avvocato:

  • non deve dare informazioni comparative con altri professionisti né equivoche, ingannevoli, denigratorie, suggestive;
  • nelle informazioni al pubblico l'avvocato non deve indicare il nominativo dei propri clienti o parti assistite, ancorché questi vi consentano. Con il consenso dei clienti, può fornire agli organi di informazione solo notizie che non sono coperte dal segreto di indagine e purché detta divulgazione avvenga nell'esclusivo interesse delle parti assistite;
  • quando fornisce informazioni agli organi di stampa deve ispirarsi ai criteri di equilibrio e misura, nel rispetto dei doveri di discrezione e riservatezza ed è tenuto in ogni caso ad assicurare l'anonimato dei minori.

La violazione di tali doveri costituisce illecito disciplinare suscettibile di sanzione. E ciò in considerazione del fatto che il rapporto cliente e avvocato non è solo un rapporto privato di carattere libero-professionale perché l'attività forense ha valenza pubblicistica e, per questo, può anche sfuggire alla logica di mercato (Cass. civ. Sez. Unite, n. 9861/2017). 

Se è suscettibile di sanzione disciplinare il comportamento dell'avvocato che supera i limiti suddetti, a maggior ragione è sanzionabile la condotta del professionista che:

  • rilascia interviste relative al contenuto dei processi seguiti come difensore, comparendo in trasmissioni televisive con sembianze alterate;
  • interpreta ruoli in processi inventati;
  • ingaggia un attore da far comparire in trasmissioni televisive come cliente assistito con successo in una sua causa;
  • rilascia interviste, riferendo di aver proposto, per innumerevoli suoi assistiti, giudizi di classe, in realtà, infondati, con positivo risultato;
  • fornisce ai clienti, in relazione a tali giudizi, il recapito telefonico dello studio di altri avvocati.

In tali casi, si tratta di comportamenti finalizzati all'accaparramento della clientela, condotta vietata nel nostro ordinamento forense.

Ma qual è la ratio di tale divieto?

La ratio di tale divieto è rinveniente nel fatto che l'acquisizione di nuovi clienti non può essere il solo scopo dell'attività forense perché, se così fosse la condotta dell'avvocato, sarebbe suscettibile di disvalore deontologico perché attuata con modalità non conformi a correttezza e decoro (CNF, n 244/2017). 

Ne consegue, pertanto, che, ove un avvocato ponga in essere i comportamenti su descritti, il Consiglio dell'Ordine, all'esito del procedimento disciplinare, potrebbe applicare la sanzione disciplinare della sospensione dall'esercizio della professione forense sino a quattro mesi (Cass. civ. Sez. Unite, n. 5420/2021).

Un provvedimento che, se impugnato, potrebbe essere confermato dal Consiglio nazionale forense e quindi ricorribile in Cassazione.

In quest'ipotesi, l'avvocato ricorrente:

  • non potrà eccepire in sede di legittimità per la prima volta vizi derivanti dalla violazione di norme del procedimento disciplinare svoltosi dinanzi al Consiglio dell'ordine (Cass. civ. Sez. Unite, n. 5420/2021);
  • non potrà prospettare l'omesso esame di risultanze probatorie se dirette a una diversa valutazione dei fatti storici rispetto a quella operata dal giudice del merito, anche con riferimento all'attribuzione soggettiva di determinate condotte (Cass. n. 344767/2019, richiamata da Cass. civ. Sez. Unite, n. 5420/2021);
  • non potrà chiedere la rideterminazione della sanzione in una più adeguata in quanto tale richiesta costituirebbe tipico apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità (Cass. Sez. Unite, n. 1609/2020, richiamata da Cass. civ. Sez. Unite, n. 5420/2021), con conseguente inammissibilità della richiesta (Cass. civ. Sez. Unite, n. 5420/2021).  

 

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