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Avvocati: la provocazione e i limiti di compatibilità con le esigenze della dialettica processuale

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La provocazione e i limiti di compatibilità tra linguaggio utilizzato nell'atto difensivo e esigenze della dialettica processuale

L'avvocato svolge un ruolo fondamentale che è quello di garantire al proprio cliente il diritto alla difesa attraverso gli strumenti processuali di cui dispone. L'esigenza di difesa del proprio assistito, in ogni caso, non deve condurre il professionista a porre in essere comportamenti che contrastino con il decoro e la dignità della professione forense. E ciò anche quando l'avvocato si trovi a dover affrontare una causa in cui lo stato di tensione tra le parti coinvolte è forte. In tali situazione, infatti, il professioniste deve sempre mantenere un contegno adeguato alla civile convivenza. Per tale motivo, l'avvocato deve utilizzare negli atti difensivi un linguaggio consono alle esigenze della dialettica processuale, per evitare di adottare un comportamento rilevante dal punto di vista disciplinare. Tale limite di compatibilità va rispettato anche in caso di ritorsione, provocazione o reciprocità delle offese [1].

Ma quando il linguaggio non appare consono alle esigenze della dialettica processuale?

«Il limite di compatibilità delle esternazioni verbali o verbalizzate e/o dedotte nell'atto difensivo dal difensore con le esigenze della dialettica processuale e dell'adempimento del mandato professionale, oltre il quale si prefigura la violazione dell'art. 52 codice deontologico forense [...], va individuato nella intangibilità della persona del contraddittore, nel senso che quando la disputa abbia un contenuto oggettivo e riguardi le questioni processuali dedotte e le opposte tesi dibattute, può anche ammettersi crudezza di linguaggio e asperità dei toni» (CNF, n. 180/2019). 

Secondo la giurisprudenza del Consiglio nazionale forense (CNF), per comprendere quando è superato il su citato limite di compatibilità occorre:

  • effettuare una valutazione delle frasi poco consone utilizzate nell'atto difensivo che va oltre il senso letterale dell'espressione incriminata (CNF n. 129/14, richiamata da CNF, n. 180/2019);
  • esaminare l'attinenza alla difesa del linguaggio utilizzato in modo inadeguato, specie se sconveniente ma non direttamente offensivo (CNF nn. 110/2015, 76/2015, richiamate da CNF, n. 180/2019);
  • valutare la responsabilità e quindi la determinazione della sanzione adeguata alla gravità e alla natura del comportamento in rapporto ai fatti complessivamente valutati e non il singolo episodio oggetto di indagine, avulso dal contesto in cui si è verificato (CNF nn. 38/2018; 223/2015, richiamate da CNF, n. 180/2019)

In buona sostanza, si ritiene che:

  • la tensione o lo stato di belligeranza fra le parti non deve legittimare l'avvocato all'utilizzo di espressioni poco consone al decoro e alla dignità professionale forense (CNF, n. 180/2019);
  • il numero delle frasi censurabili non è rilevante ai fini della concretizzazione o meno del comportamento deontologicamente illecito (CNF, n. 180/2019);  
  • quando la diatriba trascende sul piano personale e soggettivo, prevale l'esigenza di tutela del decoro e della dignità professionale forense. Con l'ovvia conseguenza che la condotta del professionista che supera i limiti in questione va sanzionata alla luce del contesto complessivo in cui la violazione è commessa (CNF, n. 180/2019);
  • «nel conflitto tra diritto a svolgere la difesa giudiziale nel modo più largo e insindacabile e il diritto della controparte al decoro e all'onore prevale il primo, salvo l'ipotesi in cui le espressioni offensive siano gratuite, ossia non abbiano relazione con l'esercizio del diritto di difesa e siano oggettivamente ingiuriose; pertanto non commette illecito disciplinare l'avvocato che, in un atto del giudizio, usi espressioni forti per effettuare valutazioni generali attinenti alla materia del contendere e a scopo difensivo»(CNF, n. 89/2019).


Note

[1] Art. 52 Codice deontologico forense:

«1. L'avvocato deve evitare espressioni offensive o sconvenienti negli scritti in giudizio e nell'esercizio dell'attività professionale nei confronti di colleghi, magistrati, controparti o terzi. 2. La ritorsione o la provocazione o la reciprocità delle offese non escludono la rilevanza disciplinare della condotta. 3. La violazione del divieto di cui al comma 1 comporta l'applicazione della sanzione disciplinare della censura». 

 

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