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Appropriazione indebita, SC: “Se l’ex moglie non restituisce i beni del marito va condannata”

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Con la sentenza n. 52598 dello scorso 22 novembre, la II sezione penale della Corte di Cassazione ha confermato la condanna per appropriazione indebita inflitta ad una moglie separata che, essendo in possesso dei beni del marito, si era rifiutata di restituirglieli, statuendo che va condannato per appropriazione indebita il coniuge separato che si rifiuti di restituire i beni di proprietà dell'altro coniuge; l'interversione del possesso si verifica solo nel momento in cui la persona offesa comunichi la propria intenzione di ritirare i beni.

Il caso sottoposto all'attenzione della Corte prende avvio dalla querela sporta da un uomo contro la sua ex moglie: l'uomo deduceva che, intervenuta la separazione tra i due, aveva richiesto all'ex moglie la restituzione di alcuni beni di sua proprietà custoditi in un locale di disponibilità della moglie; la donna, di contro, svuotava il summenzionato locale, proprio al fine di impedire al coniuge separato di tornare in possesso dei propri beni.

Il Tribunale di Brindisi condannava l'imputata per il reato di cui all'art. 646 c.p., essendo emerso, oltre ogni ragionevole dubbio che la donna, avendone la disponibilità, si era appropriata di alcuni beni di proprietà dell'ex coniuge, impedendone la restituzione nonostante le continue richieste del dell'uomo.

All'esito del processo di primo grado, il difensore della donna proponeva appello avverso la sentenza, chiedendo l'assoluzione con formula piena dell'imputata perché il fatto non sussiste e, in ogni caso la rideterminazione della pena, anche previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. 

La Corte di Appello di Lecce, in parziale riforma della sentenza pronunciata dal Tribunale, concedeva i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione nel certificato del casellario giudiziale rilasciato a richiesta dei privati; confermava nel resto la condanna per il reato di appropriazione indebita.

La moglie, ricorrendo in Cassazione, rilevava in prima battuta che la querela, sporta a quasi due anni dal provvedimento di separazione che autorizzava il marito a prendere i propri beni personali, era tardiva.

Sotto altro profilo, anche in considerazione del tempo trascorso, si eccepiva come non fosse configurabile il reato contestato e che, sul punto, la motivazione della sentenza fosse del tutto carente: il difensore, in particolare censurava la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, in relazione alla richiesta difensiva di assoluzione perché il fatto non sussiste, specificamente dedotta con l'atto di appello.

La Cassazione non condivide le tesi difensive della ricorrente.

In relazione alla censura sollevata per la tardività della querela, gli Ermellini evidenziano come – tenuto conto del momento di interversione del possesso – la querela sia stata tempestivamente presentata: l'interversione del possesso si è determinata, infatti, non al momento della pronuncia della separazione ma solo in un momento successivo, ovvero quando è stato negato al legittimo titolare di rientrare nel possesso dei beni. 

Nel caso sottoposto alla loro attenzione, parecchio tempo dopo la pronuncia sulla separazione, la persona offesa aveva comunicato che avrebbe ritirato i beni custoditi in un locale nella disponibilità della moglie: è in relazione a siffatto evento che va valutato il termine previsto dalla legge per la presentazione della querela.

Anche l'elemento soggettivo del reato è stato ampiamente provato: è stata, infatti, la stessa imputata a confermare di aver coscientemente e volutamente svuotato il summenzionato locale, proprio al fine di impedire al coniuge separato di tornare in possesso dei propri beni.

In relazione alle generiche doglianze circa la logicità e la completezza della motivazione della sentenza pronunciata dalla Corte Territoriale, la Corte rileva come le stesse sono manifestamente infondate: la motivazione della corte di Appello, infatti, saldandosi ed integrandosi con quella del giudice di primo grado, ha fornito congrua risposta alle generiche critiche contenute nell'atto di appello ed ha esposto gli argomenti per cui queste non erano in alcun modo coerenti con quanto emerso nel corso dell'istruttoria dibattimentale.

Premesso che la Cassazione è chiamata solo a verificare e stabilire se i giudici di merito abbiano o meno esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi e se abbiano esattamente applicato le regole della logica, la pronuncia in commento rileva come la sentenza impugnata sia logica e coerente ed abbia, altresì, dato adeguatamente conto della sostanziale credibilità della persona offesa.

La sentenza di merito viene dunque confermata; la Cassazione dichiara inammissibile il ricorso, con condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio. 

 

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