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Abuso edilizio: l’ inerzia della PA non fa sorgere alcun affidamento legittimo

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Con la sentenza n. 98 dello scorso 27 gennaio, la sezione II del Tar Calabria, ha confermato la legittimità di un provvedimento con cui veniva irrogata la sanzione del ripristino dello stato dei luoghi per un cambio di destinazione d'uso urbanisticamente rilevante in assenza di un valido titolo edilizio, ritenendo ininfluente la buona fede del proprietario che, avendo acquistato l'immobile dopo decenni dalla realizzazione dell'abuso, confidava nella sua regolarità edilizia e urbanistica.

Si è difatti precisato che la mera inerzia da parte dell'Amministrazione nell'esercizio di un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l'edificazione sine titulo) è sin dall'origine illegittimo; allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere "legittimo" in capo al proprietario dell'abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un'aspettativa giuridicamente qualificata. 

Il caso sottoposto all'attenzione del Tar prende avvio dall'adozione di un provvedimento con cui veniva irrogata la sanzione del ripristino dello stato dei luoghi in relazione ad una modifica della destinazione d'uso, da deposito ad abitazione, in assenza di titolo edilizio.

Ricorrendo al Tar, il proprietario dell'immobile chiedeva l'annullamento di tale provvedimento, non avendo l'amministrazione comunale tenuto conto della sua buona fede, non essendo a lui direttamente imputabile l'abuso edilizio, che invece era stato realizzato alla fine del secolo scorso.

In particolare, il proprietario evidenziava di aver acquistato l'immobile dopo essersi rivolto a un'agenzia di mediazione immobiliare, confidando nella sua regolarità edilizia ed urbanistica.

Il Tar non condivide le difese mosse dal ricorrente.

Il Collegio Amministrativo ricorda che, il mutamento della destinazione d'uso tra categorie funzionali ontologicamente diverse (comportanti, cioè, un aggravio del carico urbanistico), anche se realizzato senza opere edilizie, necessita del permesso di costruire ex art. 10, comma 1, lett. c), d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380 ed è perciò suscettibile di misure ripristinatorie le quali, avendo carattere reale, possono essere irrogate, oltre che nei confronti del responsabile, anche nei confronti dell'attuale proprietario del bene estraneo all'abuso. 

 Ciò premesso, il Collegio evidenzia come il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell'abuso, neanche nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell'onere di ripristino.

Difatti, la mera inerzia da parte dell'Amministrazione nell'esercizio di un potere/dovere finalizzato alla tutela di rilevanti finalità di interesse pubblico non è idonea a far divenire legittimo ciò che (l'edificazione sine titulo) è sin dall'origine illegittimo; allo stesso modo, tale inerzia non può certamente radicare un affidamento di carattere "legittimo" in capo al proprietario dell'abuso, giammai destinatario di un atto amministrativo favorevole idoneo a ingenerare un'aspettativa giuridicamente qualificata.

Con specifico riferimento al caso di specie, il Collegio rileva come fosse documentalmente provato che il ricorrente era a conoscenza della difformità edilizia dell'immobile, giacché nell'atto di compravendita era ben specificato che si trattava di un locale di deposito e, nonostante ciò, lo aveva acquistato al fine di porvi la sua abitazione.

Alla luce di tanto, il Tar rigetta il ricorso, condannando il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.

 

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