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Tutela dell’incolumità pubblica dall’aggressione dei cani randagi: chi risarcisce i danni?

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Riferimenti normativi: Articoli 9 e 41 Cost. - Articoli 2043 – 2697 c.c.

Focus: Nell'ambito della tutela degli animali e della lotta al randagismo va tenuto conto della relazione uomo-animale e del reciproco rapporto di convivenza in termini di benessere e sicurezza. Necessaria, quindi, è l'adozione di provvedimenti da parte dell'amministrazione comunale che garantiscano l'applicazione di regole e metodi di comportamento a tutela dell'ambiente e del decoro urbano e nel rispetto della salute pubblica.

Principi generali: La tutela degli animali e dell'ambiente è entrata a pieno titolo nel testo degli articoli 9 e 41 della Costituzione, modificati con la legge costituzionale n.1 dell'11 febbraio 2022 entrata in vigore il 9 marzo 2022. La normativa di riferimento, sino alla citata legge costituzionale, è stata la legge quadro 14 agosto 1991 n. 281 in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo. La legge quadro enuncia il principio generale secondo il quale "lo Stato promuove e disciplina la tutela degli animali d'affezione, condanna gli atti di crudeltà contro di essi, i maltrattamenti ed il loro abbandono al fine di favorire la corretta convivenza tra uomo e animale e di tutelare la salute pubblica e l'ambiente". A tal fine ha previsto la presenza di un'anagrafe canina e di un programma per la prevenzione e il controllo del randagismo in ogni regione italiana. Sulla base della normativa vigente e del relativo regolamento regionale è compito del Comune provvedere alla tutela degli animali, attraverso i propri organi, e vigilare sull'osservanza delle leggi e dei regolamenti generali e locali, relativi alla protezione degli animali ed alla difesa del patrimonio zootecnico. Il Sindaco, in particolare, ha il compito di assicurare non solo la tutela di tutte le specie animali che vivono stabilmente o temporaneamente allo stato libero nel territorio comunale, ma anche la tutela dell'incolumità pubblica mediante l'adozione di specifici provvedimenti applicativi come, ad esempio, ordinanze contingibili ed urgenti in materia di aggressione di cani. Infatti, ai randagi è collegata la problematica della responsabilità inerente la richiesta di risarcimento per il danno da essi provocato. In particolare, nell'ambito del programma di prevenzione e lotta al randagismo la responsabilità può essere attribuita sia al Comune che all'Asl competente. Il Comune si occupa dell'organizzazione e della prevenzione dei cani randagi e, quindi, anche della gestione dei canili e dei rifugi per cani. L'Asl gestisce il servizio di accalappiamento dei cani randagi così da poterli trasferire nei canili pubblici. A tutela di quanti restano vittime del fenomeno del randagismo la Cassazione, con l'Ordinanza n. 9621/22 depositata il 24 marzo 2022, con una decisione analoga a un precedente recente pronunciamento, ha affermato e rinsaldato un importante orientamento.

Il caso: Un cittadino in seguito all'aggressione di due cani randagi di grossa taglia aveva citato in giudizio dinanzi al giudice di pace la Regione, in quanto ente "titolare" del servizio sanitario, ed il Comune, ove era accaduto il fatto, per essere risarcito dei danni fisici patiti quantificati in oltre cinquemila euro. Il giudice di pace aveva rigettato la domanda per difetto di prova circa lo stato di randagismo degli animali e del nesso causale tra il fatto dedotto e le lesioni subite. Il danneggiato, perciò, aveva impugnato la sentenza in tribunale ma il giudice d'appello aveva rigettato, a sua volta, il gravame, anche se con diversa motivazione. Infatti, riteneva provato lo stato di randagismo degli animali ed il nesso causale tra l'aggressione e le lesioni patite dal malcapitato, ma non "l'elemento soggettivo richiesto dall'art. 2043 cod. civ.". Secondo il giudice di seconde cure il ricorrente non aveva dato prova di eventuali profili di colpa in capo alla Asl, per non aver provveduto su apposita e specifica segnalazione alla cattura e al ricovero dei randagi, né in capo al Comune per ipotetiche violazioni dei suoi di obblighi di "accoglienza" dei cani vaganti in strutture a ciò destinate. Pertanto, secondo il tribunale, non sussisteva in capo ai due soggetti "alcun contegno omissivo giuridicamente rilevante in termini di responsabilità colposa". La sentenza, di conseguenza, veniva impugnata dal danneggiato con ricorso in Cassazione per essere stato gravato dai giudici di secondo grado, in violazione dell'art.2697 c.c., dell'onere di preventiva allegazione di precedenti denunce e/o segnalazioni di pericolosità dei cani, addossandogli, in tal modo, una vera e propria "probatio diabolica". Egli sottolineava, in particolare, che detto onere non gli competeva in base alla legge nazionale e regionale di riferimento. Inoltre, se fosse stato già a conoscenza di segnalazioni in merito alla pericolosità dei cani che si trovavano in quella zona, per ragioni di prudenza non l'avrebbe di certo frequentata o non sarebbe sceso dall'abitacolo dell'auto; viceversa, se, com'era, non ne fosse stato a conoscenza, una volta aggredito avrebbe dovuto a quel punto indagare in merito all'esistenza di precedenti segnalazioni, eventualmente anche rivolgendosi all'Asl e al Comune, "nell'improbabile tentativo di provocarne una confessione stragiudiziale". Citava, altresì, precedenti sentenze della Suprema Corte secondo le quali la responsabilità degli enti interessati poteva escludersi solo laddove fossero ad essi attribuiti, nella materia, generici compiti di prevenzione del randagismo, quali, ad esempio, il controllo delle nascite della popolazione canina e felina. Il danneggiato osservava che tale evenienza, però, non si poneva nel caso specifico stante che la relativa legge regionale stabiliva pregnanti, puntuali, specifici e dettagliati obblighi di intervento sia a carico del servizio veterinario dell'Asl sia a carico dei Comuni. 

La Cassazione basandosi su tali rilievi ha accolto il ricorso della parte facendo chiarezza in materia. La Corte Suprema, in premessa, ha stabilito che la responsabilità per i danni causati dagli animali randagi deve ritenersi disciplinata "dalle regole generali di cui all'art. 2043 cod. civ., e non dalle regole di cui all'art. 2052 cod. civ., che non sono applicabili in considerazione della natura stessa di detti animali e dell'impossibilità di ritenere sussistente un rapporto di proprietà o di uso in relazione ad essi, da parte dei soggetti della pubblica amministrazione preposti alla gestione del fenomeno del randagismo". Ai sensi dell'art 2043 c.c. "qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno". Sulla base di tale norma va individuato l'ente a cui le leggi nazionali e regionali affidano in generale il compito di controllo e gestione del fenomeno del randagismo. Quindi, caso per caso va analizzata la normativa regionale, in via preliminare, per dirimere la controversia in ordine a quale ente sia ascrivibile la responsabilità civile per danni da mancata cattura di animale randagio. Nella fattispecie, con riferimento alla normativa regionale del caso in questione (legge regionale 3 aprile 1995, n. 12, in particolare art. 6), è evidente, secondo la Suprema Corte che "funzione tipica dell'obbligo giuridico di recupero dei cani randagi a carico dei Servizi veterinari delle Asl, è quella di prevenire eventi dannosi quale quello per cui è causa". Ciò comporta che "l'osservanza della norma cautelare implica l'approntamento di un servizio organizzato", per cui spettava alla Asl dedurre e dimostrare di avervi dato compiuta osservanza in base ai principi generali in materia di nesso di causalità e di responsabilità colposa (Cass. Sez. 6-3, ord. n.9671 del 2020, cit.; in senso conforme, Cass. Sez. 6-3, ord. n. 32884 del 2021, cit.). Pertanto, "in base al principio del neminem laedere, la Pubblica Amministrazione è responsabile dei danni riconducibili all'omissione dei comportamenti dovuti, i quali costituiscono il limite esterno alla sua attività discrezionale", ragion per cui "in presenza di obblighi normativi, la discrezionalità amministrativa si arresta poiché l'ente è tenuto ad evitare o ridurre i rischi connessi all'attività di attuazione della funzione attribuitale". Da ciò consegue che, "allorché si tratti di omissione di un comportamento di cautela imposto da una norma giuridica specifica, ovvero da una posizione del soggetto che implichi l'esistenza di particolari obblighi di prevenzione dell'evento", nel caso in cui si concretizza il rischio, che la norma violata tende a prevenire, il nesso di causalità tra il rischio e i danni conseguenti rimane presuntivamente provato. La Cassazione ha ulteriormente precisato che "una volta dimostrata in giudizio la sussistenza dell'obbligo di osservare la regola cautelare omessa ed una volta appurato che l'evento appartiene al novero di quelli che la norma mirava ad evitare attraverso il comportamento richiesto, non rileva, ai fini dell'esonero dalla responsabilità, che il soggetto tenuto a detta osservanza abbia provato la non conoscenza in concreto dell'esistenza del pericolo". Pertanto, sottolineano gli Ermellini, "l'onere del danneggiato di provare, anche per presunzioni, l'esistenza di segnalazioni o richieste di intervento per la presenza abituale di cani, qualificabili come randagi" si colloca "a valle" rispetto a quello "del soggetto (nello specifico l'Asl) tenuto per legge alla predisposizione di un servizio di recupero di cani randagi abbastanza articolato, di provare di essersi attivato rispetto all'onere cautelare previsto dalla normativa regionale". Poiché nel caso di specie, il servizio di recupero dei cani randagi grava sulle Asl e "la domanda risarcitoria è fondata su un fatto che costituisce concretizzazione del rischioche la norma cautelare mirava ad evitare", e visto che "l'osservanza della norma cautelare implica l'approntamento di unservizio organizzato", spettava "alla Asl dedurre e dimostrare di avervi dato compiuta osservanza in base ai principi generali in materia di nesso di causalità e di responsabilità colposa". Solo laddove questa prova fosse stata fornita, sarebbe spettato, a questo punto, al danneggiato "dedurre e dimostrare che, per esempio, il servizio era stato approntato solo sulla carta, ma che in realtà non era operativo o aveva, nella fattispecie, funzionato male, perché c'erano state specifiche segnalazioni che non avevano avuto seguito". In conclusione, la Cassazione ha evidenziato come la sentenza impugnata abbia del tutto contravvenuto a tali principi nel respingere la domanda risarcitoria del ricorrente, violando così l'art. 2697 cod. civ., configurandosi l'ipotesi in cui il giudice ha attribuito l'onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata. Pertanto, il ricorso è stato accolto e la sentenza cassata con rinvio al Tribunale, in persona di diverso giudice, per la decisione nel merito, alla luce dei principi ribaditi e ormai assodati. 

 

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