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Storia di Kotaiba, avvocato a Raqqa, sunnita, sopravvissuto all´Isis

Il giovane ha raccontato ad HuffPost come è finito - e come è fuggito - dalle mani degli uomini di Al Baghdadi.
Una storia lunga ma avvincente narrata da un bravissimo Lorenzo Forlani, che far riflettere su come sia drammatico fare l´avvocato dall´altra parte del mondo.

Beirut - In una tiepida notte di novembre del 2013, mentre viaggia in taxi per tornare a casa dopo una giornata di lavoro come scaricatore di container, Kotaiba viene fermato da alcuni agenti della sicurezza di Hezbollah. Siamo a Dahye, zona sud di Beirut, roccaforte del Partito di Dio nella capitale del Libano. Kotaiba viene invitato a scendere ma non è preoccupato. Non si scompone, e non spegne nemmeno la sigaretta che sta fumando, una delle decine che si accende ogni giorno.

L´agente di Hezbollah, che avrà più o meno la sua età, gli chiede i documenti ma Kotaiba non ne ha. Allora gli chiede come si chiama: "Mi chiamo Kotaiba al Saleh e sono siriano, di Raqqa", gli risponde lui, con la serenità di chi risponde a una domanda sul meteo. L´agente, invece, si allarma, l´espressione da assonnata diventa inquisitoria. "Kotaiba al Saleh?", chiede. "Vieni con noi", aggiunge prendendolo per la giacca. La tensione sale in un lampo, perché Kotaiba si chiama in modo molto simile a un ragazzo siriano – Kotaiba Al Sameh – ricercato per aver provato ad organizzare qualche settimana prima un attentato presso la sede di Al Manar, tv ufficiale del partito sciita.

Lui si mostra collaborativo ed entra in macchina senza fare una piega: sa bene quanto siano frequenti gli attentati in quest´area, conosce il costante stato di allerta – che sconfina nella paranoia – in cui si vive, oltre al clima di diffidenza verso i siriani e musulmani sunniti come lui. Non ha nulla da temere, ed è anche molto stanco. L´unica cosa di cui si preoccupa è avvertire il suo datore di lavoro presso un panificio di Rabieh, dall´altra parte della città, dove attacca per il turno di notte dopo aver finito con i container a Dahye. Almeno stavolta, pensa, non lavorerò le canoniche 20 ore al giorno.

Nella struttura in cui viene portato lo aspetta un comandante sulla cinquantina per l´interrogatorio. Fin lì non ha potuto dire nulla, gli agenti e l´atmosfera di colpevolezza fino a prova contraria glielo hanno impedito. E´ stato chiuso per qualche ora in una stanza e, di fatto, è in arresto. Kotaiba si siede di fronte al comandante e finalmente gli concedono di accendersi un´altra sigaretta. Il comandante lo incalza, gli chiede sospettoso cosa fa in Libano, chi è, da dove viene, perché è venuto, se conosce quel Kotaiba suo quasi-omonimo, e lo avverte di dire la verità. Lui gli consegna un tesserino che si è ricordato di avere come unico segno identificativo.

Il comandante lo analizza e solleva le sopracciglia, in un misto di stupore e persistente diffidenza. D´altronde è raro che chi venga fermato da Hezbollah non si mostri minimamente turbato. "Sei un avvocato?", chiede il comandante, rigirandosi la licenza tra le mani. Kotaiba continua a rimanere impassibile di fronte alla tensione del momento. Siriano, musulmano sunnita, senza documenti, proveniente dalla città-roccaforte dell´Isis in Siria, semi omonimo di un attentatore, e ora presunto avvocato che però lavora come scaricatore di container. "Si, sono un avvocato. Posso parlare ora?", risponde con calma. Il comandante approva, e Kotaiba parla: racconterà la sua storia, dall´inizio. La stessa storia che racconta a me in un bar di Beirut, mentre consuma il consueto pacchetto di sigarette, che è anche l´unica cosa che non è cambiata rispetto alla sua "vita" precedente, prima che scoppiasse il conflitto in Siria.

In un´altra vita, a Tabqa

Tabqa è una cittadina nella provincia di Raqqa, famosa sopratutto perché ospita la più grande diga della Siria. La diga, costruita dai russi, ha permesso la creazione di un lago artificiale (il lago Assad) e di una centrale idroelettrica nel 1977, che forniva elettricità anche ai villaggi più remoti del governatorato. Kotaiba, che oggi ha 34 anni, è nato e cresciuto qui, primo dei cinque figli (Jasmine, Okba, Obayda e Ammar gli altri quattro) di Fahima e Jaber. Dopo essersi laureato in giurisprudenza ad Aleppo e aver conseguito una specializzazione in Diritto internazionale, ha iniziato a fare l´avvocato. Di avvocati a Tabqa non ce ne sono moltissimi, e anche per questo, subito dopo la laurea, Kotaiba ha iniziato a occuparsi di casi di diritto civile, penale e amministrativo. Le sue giornate trascorrevano nel Tribunale cittadino, piene e soddisfacenti. Fino al 2013.

Kotaiba è un ragazzo colto, con un eloquio elegante e reattivo, da bravo avvocato, la battuta sempre pronta ed un sorriso contagioso, che l´espressione e la forma del viso fanno apparire canzonatorio. Grande lettore, si è sempre interessato sia alla religione che alla politica, rimanendo però su un piano di ricerca personale, sia con l´una che con l´altra: conosce benissimo il Corano e la tradizione islamica sunnita ma non pratica in modo continuo, durante il Ramadan digiuna spesso a intemittenza. Conosce la storia politica del suo Paese e della regione, ama discutere appassionatamente di politica, di cambiamento e nuove forme di rappresentanza ma – complice una vita professionale sin da subito intensa – ha sempre vissuto in modo più o meno defilato le proteste del 2011 e gli sviluppi immediatamente successivi.

A febbraio 2013, dopo tre mesi di scontri con l´Esercito siriano sulla strada che collega Raqqa ad Aleppo, i gruppi ribelli occupano Tabqa, prendendo anche il controllo della diga. "Io ero come al solito in tribunale, ed è stata una delle prime strutture che hanno occupato. Era impossibile distinguere tra un gruppo e l´altro, erano perlopiù siriani e di gruppi armati ce n´erano tantissimi: Jabhat al Nusra, Ahrar al Sham, Jaish al Horr, Liwa Owais al Qorani, Liwa Thuwar, e alcuni uomini, non moltissimi, di Daesh, che riconoscevi perché erano gli unici che andavano in giro con le cinture esplosive". Se non fosse stato per questo segno identificativo, i miliziani dell´Isis li si sarebbe potuti confondere con quelli della Liwa Owais o Liwa Thuwar, che spesso utilizzavano un banner simile – in un tentativo di riappropriazione simbolica – a quello reso famoso dall´Isis, nel quale è scritta la shahada.

In breve tempo, gli uffici pubblici di Tabqa vengono chiusi e riconvertiti in basi militari e sedi logistiche dei gruppi armati. "In città c´era una atmosfera inquietante. Nessuno sapeva cosa sarebbe successo, e di gente ne era già morta o scappata moltissima. Così, ho deciso in quei giorni di spostare i miei genitori a Raqqa, per farli stare al sicuro". Raqqa, la città che poco dopo diventerà la capitale dello Stato islamico, si trova 40 chilometri a est di Tabqa, e al tempo non era ancora stata occupata. "In realtà non so nemmeno perché li ho portati lì. Ripensandoci oggi forse avrei potuto portarli più lontano. Ma sai, da una parte c´era l´irrazionalità del momento, l´agitazione. Dall´altra l´idea che tutto sarebbe finito presto: con i miei amici ci aspettavamo un intervento imminente dell´Esercito siriano. Ci sembrava tutto temporaneo". I genitori di Kotaiba sono due persone anziane, la madre fa la casalinga e il padre l´elettricista, ancora oggi, quando le circostanze glielo permettono. Kotaiba sa che spostarli significa "congelarli", perché il padre non ha alcun modo di lavorare in una città dove non ci sono i suoi storici clienti. Sia Jaber che Fahima non hanno una piena contezza di cosa stia accadendo in Siria, sanno solo che esistono fazioni che si sono ribellate al regime, che stanno "dando problemi", ma che prima o poi verranno neutralizzate. Quando Kotaiba li saluta, prima di tornare a Tabqa, loro ricambiano in modo ordinario, senza alcuna solennità. Si rivedranno presto, pensano, e si rivedranno a Tabqa.

Nel frattempo, i miliziani dell´Isis iniziano a girare casa per casa, uccidendo sopratutto cristiani e sciiti, ma anche molti musulmani sunniti. Un´intera famiglia cristiana composta da padre, madre e due figli, vicina di casa di Kotaiba, viene massacrata davanti al suo palazzo. Due suoi compagni di scuola, musulmani sciiti, fanno la stessa fine due isolati più in là. I vicini del terzo piano, drusi, riescono invece a scappare in tempo, sfuggendo a destino certo. In un palazzo di cinque piani, in poche settimane solo quello dove vive Kotaiba rimane abitato.

Passano le settimane e l´Esercito non arriva. Il governatorato di Raqqa è isolato rispetto alla direttrice che da Aleppo arriva fino a Damasco: in mezzo ci sono decine di chilometri di deserto e un intero battaglione è stato sconfitto dalle formazioni ribelli proprio nei dintorni di Tabqa. Kotaiba passa le sue giornate a casa, recluso come gran parte della popolazione, spaventata dall´estrema precarietà della situazione, dal clima di crescente terrore.

Un pomeriggio di maggio, mentre se ne sta sul divano a vedere un film, bussano alla sua porta. Kotaiba apre e si trova davanti tre persone: un ragazzo della sua età, con i capelli rossi e la barba dello stesso colore, e altri due alle sue spalle, col volto coperto. "Sei Kotaiba al Saleh?", chiede il ragazzo, in un arabo perfetto, privo di accenti, come quello coranico. "Si", risponde Kotaiba, "e voi chi siete?". Non li ha mai visti prima, ma immagina chi possano essere, e si irrigidisce.

"Io mi chiamo Abu Ali Al Shishani (Shishani in arabo significa "ceceno", ndr), e siamo dello Stato Islamico del Levante". Il suo è un tono solenne ma non aggressivo. "Vieni con noi", aggiunge. "Perché?", chiede Kotaiba, polemico di natura. "Vieni con noi", insiste fermo Al Shishani, guardandolo negli occhi. "Devo vestirmi", ribatte Kotaiba, indicandosi pantaloncini e canottiera."Va bene, vestiti, ma lascia la porta aperta", risponde il ragazzo, mettendo una mano sullo stipite. Sulla jeep che li conduce nel palazzo governativo che i miliziani hanno occupato per stabilirvi la loro sede, Kotaiba prova a insistere. "Posso sapere qual è il problema?". "Lo vedrai", gli risponde Al Shishani.

Giunti nella struttura, viene messo in una stanza disadorna e gli viene dato un cuscino. "Sarò stato lì quasi cinque ore, finché un altro ragazzo non è venuto a prendermi. Siamo entrati in un´altra stanza, dove alla scrivania c´era un uomo sulla cinquantina al massimo, con la barba lunga, che senza guardarmi negli occhi mi ha invitato a sedermi di fronte a lui". L´uomo che si ritrova di fronte è vestito da sheikh, ma non lo ha mai visto in giro. Non deve essere del posto.

"Mi chiamo Abu Abid Al Muhajir e sono l´investigatore", esordisce l´uomo - probabilmente di nazionalità saudita, ipotizza Kotaiba dall´accento -, sfogliando le pagine di uno dei tanti quaderni posti sulla scrivania. Kotaiba annuisce.

"So che sei un avvocato laico, che ti occupi di casi non regolati dalla Legge di Dio. Roba tipo diritto civile, diritto penale. Lo sai che è vietato, che è una cosa da kafir (miscredente)?", sentenzia Al Muhajir, fissandolo negli occhi per la prima volta.

"Quindi il problema è che sono un avvocato, sono qui per questo?", domanda Kotaiba, che non ha alcun timore reverenziale, e prova a mantenere intatta la razionalità. "E´ normale qui, sono cresciuto in Siria. Anche lei se fosse cresciuto qui lo avrebbe fatto, magari". "Non discutere, stai zitto che non ho finito. Parlo solo io qui, non sei nei tribunali dei miscredenti", ribatte l´uomo alzando il tono di voce. "A noi risulta che sei un murtadd (apostata). Hai due alternative: o muori, oppure torni all´islam".

"Io sono musulmano, non ho bisogno di tornare. Voglio solo andare a casa". "No, hai bisogno di pensare", lo interrompe l´uomo, facendo un rapido cenno ai tre uomini armati rimasti sull´uscio. Kotaiba viene riportato in cella. "Per altre tre o quattro ore, non mi ricordo", prova a rammentare. In quelle tre o quattro ore Kotaiba non percepisce alcun pericolo: si sente un po´ come si sentono quelli che vengono fermati dalla polizia per errore, per uno scambio di persona. Rispettosi bisogna esserlo, ma intimoriti perché?

In quelle quattro ore, ovviamente, Kotaiba pensa a tutto tranne che a "tornare all´islam". Nell´islam lui ci sta, ci è sempre stato, non è mai passata una settimana senza che non aprisse il Corano e ne leggesse qualche versetto, nonostante un lavoro che già gli faceva passare le giornate sui libri e sugli atti processuali. "L´ho sempre vissuto in modo personale, per me è una sorta di tranquillante, un massaggio all´anima. Amo il Corano, come se fosse una persona. Ho sempre avuto tanti amici di religioni diverse, o anche atei, qui nella regione di Raqqa è così, siamo sempre stati tutti insieme, ci riunivamo con i miei amici per vedere le partite al bar sul lago, non importava che fede avessi". In quelle quattro ore Kotaiba non è nemmeno preoccupato, si sente apposto, e sa di non essere né sciita né cristiano. Al riparo dai pericoli, pensa.

Riportato al cospetto dell´investigatore saudita, stavolta aspetta di essere interpellato. "Cosa hai deciso?", chiede l´uomo con un tono tra l´inquietante e l´affabile. "Le ho detto già, sheikh, io sono musulmano".

"Recita la shahada", gli ordina, alludendo alla professione di fede. Kotaiba lo guarda per un istante, e poi procede: "Ashadu an la ilaha illa Allah, wa ashadu anna Muhammad rasoul Allah". Testimonio che non c´è altro Dio al di fuori di Dio, e che Muhammad è il suo messaggero. "Posso andare ora?", chiede Kotaiba, dopo aver concesso alcuni secondi al silenzio nella stanza. "No, devo spiegarti l´islam", ribatte Al Muhajir, che nel frattempo torna a non rivolgergli il benché minimo sguardo.

"Ho sempre letto molto, anche sulla religione. E non solo il Corano", mi spiega Kotaiba. "Anche per questo non ho mai sopportato chi nella mia vita ha provato a spiegarmi l´islam, chi si comporta da sheikh senza esserlo, chi voleva insegnarmi come credere. Quando conosci il Corano e la Sunna, hai sempre un modo per contraddire su un piano religioso chi ti accusa di non essere musulmano nel modo giusto. Ed è quello che ho sempre fatto, spesso litigando. Sai, poi sono un avvocato, mi piace discutere".

Mentre Al Muhajir procede con la sua filippica di matrice wahhabita, basata su quell´approccio letteralista che Kotaiba ha sempre visto come sinonimo di generica ignoranza, il Nostro spegne l´interruttore dell´attenzione, come si fa da bambini di fronte ad una ramanzina materna di cui già conosciamo i contenuti prima che inizi. Passa qualche minuto, e l´investigatore smette di parlare. Inizia a scrivere qualcosa su un grande quaderno ad anelli, come un professore che mette i voti sul registro.

"Posso andare Sheikh?", chiede nuovamente Kotaiba. "Non ancora, dobbiamo aspettare gli altri", risponde. Kotaiba sente di aver esaurito i bonus, di non poter chiedere altro. Incrocia le braccia e aspetta. Qualche minuto dopo, arrivano altri due uomini. "Riportatelo a casa", ordina Al Muhajir. Kotaiba ringrazia e saluta, non ricevendo alcuna risposta in cambio. Si sente sollevato.

Nel frattempo, l´equilibrio tra le fazioni, in città, inizia a cambiare. Lo Stato islamico del Levante non ha ancora proclamato il Califfato (lo farà nel giugno 2014 da Mosul, in Iraq, dopo aver occupato Raqqa nel gennaio 2014) ed è ancora un´entità nebulosa, una fazione dell´opaca orbita qaedista. Solo che ha un progetto concreto, un obiettivo chiaro: riprendersi il Levante, l´area che comprende la Siria e l´Iraq, "paesi artificiali", frutto della piano di spartizione del 1916 (Sykes-Picot), uno dei "tanti tentativi di dividere l´Umma e la Dar al Islam, la terra dell´Islam", direbbero gli uomini di Al Baghdadi.

Con l´arrivo di giugno, i miliziani dello Stato islamico sono sempre di più, e sopratutto sembrano meglio equipaggiati. Moltissimi membri di altre fazioni ribelli decidono di unirvisi. Tra loro ci sono anche un paio di compagni di liceo di Kotaiba, gente con cui giocava a pallone in cortile. Li vede affacciato alla finestra di casa sua, mentre pattugliano su una jeep Toyota la strada dove abita. L´ultima volta li aveva incontrati l´anno prima al bar sul lago, quando tutti insieme avevano visto in tv la finale degli Europei di calcio 2012 tra Spagna e Italia, tra litri di tè e il fumo denso e inebriante degli arghilè. Come cambiano in fretta le cose, quando le circostanze ti costringono a scegliere tra vivere e morire.

Quasi una settimana dopo la visita degli uomini dell´Isis, Kotaiba sente bussare di nuovo alla porta, e ha un sussulto. Stavolta non viene colto di sorpresa: sono ormai settimane che nessuno – tranne al Shishani e i suoi sgherri – si presenta a casa sua, la città si sta svuotando, il suo palazzo è già disabitato, molti dei suoi amici morti o scappati verso la Turchia, e poi verso l´Europa. Il suo amico Ghiath è riuscito ad arrivare in Svezia, dopo che per puro caso era scampato allo sterminio della sua famiglia. Ali, un suo collega avvocato, è in Germania. Kotaiba sa già chi troverà dall´altra parte della porta mentre si alza dal divano, sotto al quale nasconde repentinamente il libro del poeta iracheno (e comunista) Muzaffar Abdul Majid al Nawwab, uno dei più celebri del Levante, e anche uno dei più odiati dagli jihadisti.

Stavolta, di fronte a sé si trova un ragazzo siriano, assieme ai due consueti scagnozzi. Si chiama Wissam Ajrawi: Kotaiba lo conosce di vista, è di una città vicina. "Sei Kotaiba al Saleh?", chiede come da routine, con uno sguardo subito torvo. "Si, cosa volete?", risponde impassibile. "Siamo dello Stato islamico". Kotaiba li interrompe: "lo immaginavo, ma sono venuto con voi già una settimana fa. Mi ha interrogato lo sheikh Al Muhajir, sono apposto". "Vieni con noi e non parlare troppo, ti do questo consiglio", ribatte Ajrawi, avvicinandosi minaccioso.

"Devo vestirmi". "No, non c´è tempo", tuona il ragazzo, mettendo il kalashnikov tra Kotaiba e l´ingresso. "Vieni con noi". Kotaiba fa in tempo a raccogliere dei pantaloni rimasti sulla sedia, e viene spinto giù per le scale dal gruppetto di miliziani, che lo seguono come un plotone d´esecuzione. In macchina Kotaiba si lamenta: "non potete fare così, anche voi avrete delle regole, o no? Che cosa ho fatto? Ho chiarito tutto con lo sheikh , cosa altro volete?". Ajrawi non gli risponde nemmeno, mentre un paio di ragazzi, di almeno dieci anni meno di lui, gli ordinano di stare zitto, rifilandogli due schiaffi. Non saranno gli ultimi.

Qualche minuto dopo, Kotaiba si ritrova nella stessa cella della volta precedente. "Ci sono rimasto meno di un´ora, perché poi è arrivato un ragazzino, che mi ha portato di nuovo nella stanza di Al Muhajir, l´investigatore". Stavolta la stanza dell´autoproclamato sheikh è affollata: dietro Kotaiba rimangono cinque ragazzi con il kalashnikov in mano. Lui protesta di nuovo: "sono già stato interrogato, non potete fare così, prendere ogni giorno la gente da casa".

Sono proteste inutili, se non dannose, perché mentre il vecchio sheikh gli intima di fare silenzio guardandolo negli occhi, Kotaiba riceve un pugno sulla nuca. Ancora prima che possa girarsi per vedere chi è stato, gli arriva il calcio dell´Ak-47 sull´orecchio. "Non so se mi hanno rotto qualcosa, non sono più andato in ospedale, ma ho tuttora dei problemi all´udito", mi spiega. Il colpo è talmente forte che Kotaiba cade a terra. Poi si rialza. "Ho agito di istinto, forse sbagliando: mi sono rialzato e ho colpito il ragazzo con un pugno". La prima sessione di botte inizia lì: il ragazzo colpito da Kotaiba lo ributta a terra, e gli altri quattro lo prendono a calci, facendogli sanguinare uno zigomo e incrinandogli una costola. Il giudice guarda la scena come si guardano gli acquari, impassibile.

Rimesso "l´imputato" sulla sedia, Al Muhajir si prende qualche secondo prima di parlare, incrociando di nuovo lo sguardo di Kotaiba, che sta mutando natura, sta diventando uno sguardo nervoso, impaurito. Poi sentenzia: "In seguito alle nostre indagini ci risulta che come avvocato ti sei occupato varie volte di contratti di affitto e compravendita di immobili per conto di cristiani". "E´ vero", dice Kotaiba. "Faccio l´avvocato, mi occupo anche di queste cose. Le avevo detto che qui è normale, siamo cresciuti tutti insieme". "E´ vietato, e tu devi morire perché sei un kafir (miscredente). Stai dalla parte dei cristiani", lo interrompe Al Muhajir. Kotaiba, per quanto surreale possa sembrargli il giustificare una cosa così normale, risponde, con le ultime forze dell´argomentazione: "Non è così. Ho fatto solo il mio lavoro, la gente veniva da me e io ho fatto solo il mio lavoro". Ormai, qualunque cosa Kotaiba risponda viene percepito come un affronto personale. Gli arrivano di nuovo dei pugni sulla testa, che si placano solo nel momento in cui lo sheikh aggiunge: "stai zitto. Morirai mercoledì prossimo, ti verrà tagliata la testa".

Kotaiba ricorda quel momento con un sussulto. Lo sheikh aveva pronunciato quella frase con un tono calmo, asettico, burocratico: non sembrava volerlo spaventare, bensì informarlo su una decisione già presa. E sulla credibilità di questo tipo di decisioni potevano testimoniare le centinaia di esecuzioni sulla pubblica piazza portate a termine dai miliziani in quei giorni. "Ho capito in quel momento che sarei morto a breve, che non c´era più nulla da fare", ricorda Kotaiba, con lo sguardo assorto nei ricordi. Viene quindi riportato in cella, ad attendere il suo destino. Non prima di essersi azzuffato nuovamente con i carcerieri, che gli riservano una nuova dose di colpi dati col calcio del fucile.

SECONDA PARTE - LASCIARSI ANDARE

Nel 1932, il filosofo Henri Bergson, in Due fonti della morale e della religione, scrisse che "se la natura non ha dotato l´uomo di un istinto allo scopo di avvertirlo della data e dell´ora esatta della propria morte è perché ciò avrebbe come risultato la nascita di un sentimento di depressione suscettibile di annichilire ogni volontà d´azione, e ogni desiderio elementare di sopravvivenza".

Aveva probabilmente ragione, Bergson. Riportato in cella, Kotaiba inizia ad accettare la morte, perché "la data e l´ora esatta" di quest´ultima, a lui, l´hanno appena comunicata. Gli rimane una settimana, e il suo istinto di sopravvivenza lascia il posto alla rabbia, una rabbia traboccante, incontrollabile, isterica. Non ha, letteralmente, più nulla da perdere, ed entra in una sorta di trance agonistica perpetua.

"Hey ragazzino, tu, con la barba bionda, vieni qua. Parliamo di Shari´a, parliamo di Islam", è così che una mattina Kotaiba, dopo l´ennesima notte insonne, si rivolge al ventenne di nazionalità britannica che gli fa la guardia insieme ad altri due, che invece sono arabi. "Cosa sai della Shari´a?", chiede, avendo già sentito dire in giro che i membri dell´Isis sanno poco e nulla di Islam. Il ragazzo sorride strafottente, e gli risponde: "è la legge di Dio, quella con cui dopodomani ti ammazziamo". "Benissimo – risponde Kotaiba avvicinandosi sfrontato alle sbarre della cella – io sono pronto, ho paura solo di Dio, non di voi. Dimmi un po´, cosa sai della Shari´a?"

"Cosa fai, ci interroghi?", risponde il ragazzo dalla barba bionda, mentre gli altri due ridacchiano in sottofondo. "E´ la legge scritta dal nostro Profeta Muhammad, pace su di lui. La legge perfetta", conclude solenne, avvicinandosi alla cella. "Tu non sai niente, ti fai crescere la barba per sentirti musulmano, ma dentro non hai nulla. Il Profeta, pace su di lui, non ha scritto un bel niente: le elaborazioni della Shari´a sono posteriori alla sua morte, e sono fatte da uomini come me e voi, non da Dio. La legge di Dio è sconosciuta agli uomini", ribatte Kotaiba, assumendo la postura da avvocato, da oratore. "Sai cos´è l´ijma? E il qiyas? Chi era Abu ?Abdullah Muhammad ibn Idris al-Shafi?i? E Malik Ibn Anas?", insiste, lanciando definitivamente il guanto di sfida.

"Ascolta, cane, non abbiamo tempo da perdere con te, tu sei morto. Non ci interessano i tuoi indovinelli, noi crediamo nel Corano e nella Sunna", interviene uno dei ragazzi arabi, che Kotaiba si rende conto essere tunisino. "Bravi, poi parliamo anche di quello allora. Rispondete, non sapete chi è Shafi?i? Nemmeno Malik Ibn Anas? E che musulmani siete? Sono loro i fondatori di due scuole giuridiche (le altre dell´orbita sunnita sono quella hanbalita e quella hanafita, ndr) che hanno interpretato la Shari´a, diversi l´uno dall´altro. E sono partiti dal qiyas (il ragionamento analogico) e dall´ijma (il consenso dei dotti), oltre che dal Corano e dalla Sunna. Voi non sapete nemmeno di che parlo, vero?". Erano mesi che Kotaiba non sorrideva, e mai si sarebbe aspettato di farlo all´interno di una cella, in attesa della sua preannunciata esecuzione. E´ una risata nevrotica la sua, consciamente canzonatoria e inconsciamente disperata. Kotaiba ha passato da un bel po´ la fase della paura, del terrore. Vuole massimizzare i frutti della propria rabbia repressa, istigare quei ragazzi che per lui rimangono delle giovani vittime – dell´età di suo fratello Okba – di una folle ideologia, ideologia che talvolta nemmeno conoscono a fondo ma che è l´unica cosa che riempie le loro vite.

"Con chi credi di parlare? Siamo noi i musulmani, e tu il miscredente. Noi conosciamo il Sacro Corano, è tutto quello che conta. E secondo il Corano i miscredenti e gli apostati come te vanno ammazzati, così come i cristiani, gli ebrei, e i rafidi ("coloro che rigettano", dispregiativo per musulmani sciiti, ndr)", torna a tuonare il ragazzo britannico, con un tono molto più imponente della sua figura.

"E sentiamo, in quale sura avete letto tutto questo? A me non risulta.". Kotaiba, allora, inizia a recitare:

"Dite: Noi crediamo in Dio e nella rivelazione fatta scendere su di noi, e nella rivelazione fatta scendere su Abramo, Ismaele, Isacco, Giacobbe e le tribù, e fatta scendere su Mosè e Gesù e quella fatta scendere su (tutti) i profeti dal loro Signore. Non facciamo distinzione fra l´uno o l´altro di essi, e a Lui noi siamo sottomessi.".

"La conoscete? Sura numero due, versetto centotrentasei. La stessa che al versetto duecentocinquantasei dice che non esiste obbligo nella religione. Il Profeta Muhammad in uno dei suoi hadith ha detto che chiunque faccia del male alla Gente del Libro è come se facesse del male a lui stesso, e chiunque faccia del male ad un innocente è come se facesse del male all´umanità intera. Voi come vi permettete ad andare in giro ad ammazzare i cristiani e gli sciiti? Chi siete? Siete il demonio!".

Kotaiba non fa in tempo a finire la domanda, che i tre entrano in cella e lo colpiscono con il fucile sulla testa. Kotaiba cade a terra, ma non esaurisce lo slancio: "Quelli che credono, o quelli che si dichiarano ebrei, cristiani o sabei - quelli che credono realmente in Dio e nel giorno del Giudizio Finale e che compiono buone azioni-, ovviamente la loro ricompensa sarà fatta dal Signore e non dovranno più temere né intristirsi", continua da terra, mentre una lacrima inizia a solcargli il viso, senza modificarne lo sguardo.

Kotaiba insiste sulla Sura numero due, la più celebre del Corano, oltre che la più lunga, all´interno della quale c´è il versetto del Trono, dal valore apotropaico per i musulmani: "Dio! Non v´è altro Dio che Lui, il Vivente, che di Sé vive: non lo prende mai né sopore né sonno, a Lui appartiene tutto ciò che è nei cieli e tutto ciò che è sulla Terra. Chi mai potrebbe intercedere presso di lui senza il Suo permesso? Egli conosce ciò che è davanti a loro e ciò che è dietro, mentre essi non abbracciano della Sua scienza se non ciò che Egli vuole. Spazia il Suo Trono sui cieli e sulla terra, né Lo stanca vegliare a custodirli: è l´Eccelso, il Possente!".

Non sente le botte. "Voi non siete musulmani!", urla, mentre tenta di parare i calci. "Non mi rendevo conto – mi racconta – ma in un certo senso ero stranamente divertito: li stavo provocando e loro erano sempre più nervosi. Non sapevano nulla, era vero ciò che si diceva in giro. Io ormai mi ero rassegnato a morire, e quando ti rassegni ti senti più libero".

Scene di questo tipo si ripetono quasi su base quotidiana, con i tre che lo pestano con sempre maggiore violenza. Kotaiba non si accorge nemmeno che il mercoledì in cui doveva essere giustiziato è passato, anzi ne sono passati due, perché il tempo in certe situazioni perde la sua consistenza. Dopo più di un mese, uno dei tre ragazzi gli comunica che il venerdì seguente sarà il giorno designato per giustiziarlo. E´ già messo male, Kotaiba: il naso rotto, dolori lancinanti all´altezza delle costole, una tibia fratturata, una spalla fuori uso, varie contusioni al volto e un orecchio che sanguina. Ma non è finita.

I tre ragazzi che hanno fatto la guardia finora sono evidentemente infervorati, e più volte chiedono ai superiori di poter ammazzare in cella il "provocatore". Richiesta che – Kotaiba lo può sentire dalla cella, perché i muri sono sottili – viene sempre negata, per via di delicati equilibri fazionalistici: l´Isis infatti da una parte deve fare i conti con la presenza di gruppi rivali, dall´altra sta cercando di radicare e legittimare la propria presenza nella regione attraverso accordi con i capi tribali dell´area. Un conto è giustiziare qualcuno in piazza per un "reato", un altro è farlo morire in cella, specie se non si ha idea dei legami che può avere con le personalità del luogo. Ciò rischierebbe di rendere più complicato il processo di legittimazione, e d´altra parte una morte in cella di un condannato a morte potrebbe indurre gli altri gruppi ribelli a pensare che quella persona sia stata uccisa perché sapeva qualcosa che non doveva sapere. Questa almeno è la spiegazione che si da´ Kotaiba.

Dopo più di un mese di pestaggi, i tre guardiani vengono sostituiti da altri tre, tutti siriani. Kotaiba provoca anche loro, ma non più a parole. Mentre uno entra nella sua cella per cambiargli l´acqua nella ciotola – come si fa con i cani – e lasciargli del riso, Kotaiba gli salta al collo, servendosi di forze misteriose. La sua è una condizione paradossalmente ideale per una cosa del genere: sa già che morirà, ma allo stesso tempo sa che non potrà essere ucciso in cella. Di botte ne ha prese, e non saranno altre a cambiare la forma della sua vendetta, per quanto effimera possa essere. Colpisce il miliziano con alcuni pugni, prova a mettergli le braccia al collo per qualche secondo, ma ad un certo punto cade giù come acqua sul vetro, tirato via da un´altra guardia venuta a soccorrere l´amico.

A quel punto, dopo un´altra sessione di botte feroci, viene preso di peso e trascinato in una stanza adiacente. E´ un´aula angusta, probabilmente prima di essere occupata – siamo in un ex ufficio governativo – serviva da sgabuzzino, perché ci sono i segni degli scaffali rimossi sui muri. E´ disadorna, tranne che per un particolare subito visibile: al soffitto è stato saldato un gancio, dal quale parte una fune molto spessa, come quelle delle barche. Kotaiba fa in tempo a sorprendersi, perché non si aspetta di poter essere impiccato quel giorno. E infatti ha ragione, perché non è per la testa che lo legano alla corda, ma per le caviglie, mettendolo a testa in giù. "Vediamo se parli ancora, adesso", gli intima uno dei tre guardiani – siriano come lui –, abbassandosi e prendendolo per i capelli.

Kotaiba risponde di nuovo, insultando i tre. Non si dimena, si limita a scaricare le corde vocali. A quel punto, dopo una breve discussione con gli altri due e dopo una serie di colpi di kalashnikov su ogni parte del corpo del prigioniero, come fosse un sacco per la boxe, uno dei guardiani esce dalla stanza. Torna quasi subito, munito di un secchio d´acqua, che poggia davanti a Kotaiba. Poi esce di nuovo, e rientra trascinando quella che a Kotaiba – con la visuale alla rovescia – sembra un´altra corda. Ma non è una corda: è un cavo elettrico, una cui estremità è stata staccata da qualche muro.

Da qui, i ricordi si fanno confusi. Kotaiba ricorda vagamente una secchiata d´acqua mentre è a testa in giù, una secchiata che risulta quasi piacevole, visto che fa caldo e che non fa una doccia da chissà quanto. Dopo la secchiata, però, i tre iniziano a divertirsi col cavo, e non è difficile immaginare quale sia l´effetto di un cavo elettrico appoggiato sul petto fradicio di una persona. Kotaiba sviene, poi si risveglia un numero imprecisato di ore dopo. Poi sviene di nuovo per le continue scariche elettriche e i colpi sordi di tubi metallici sulle sue membra. E si risveglia ancora, e sviene nuovamente, alla mercé dei suoi aguzzini, che continuano a tormentarlo con l´elettricità, l´acqua, la furia cieca. Sono gli ultimi momenti che ricorda, prima di convincersi di essere morto.

Forse – in assenza di un medico tra le fila dei miliziani – i primi a crederlo morto sono proprio gli uomini dell´Isis. Perché Kotaiba si sveglia, e non si trova né in cella né in paradiso: ha la schiena e il lato destro del corpo consumati dall´impatto con la terra, anche se il sangue è ormai pesto. Alza gli occhi e vede il lago Assad a pochi metri, la diga poco più in là; guarda a destra, e vede i tavolini del bar dove si incontrava con gli amici per vedere le partite di calcio e fumare l´arghilé. Non capisce se sta sognando. Si trova in fondo a un piccolo pendio ai margini del lago, protetto da un muro di cemento alle sue spalle, dal lato della strada che passa una ventina di metri sopra il livello delle acque. Intorno a lui rifiuti, gatti randagi, degrado. Prova ad alzarsi ma non ci riesce, non ha nessuna forza. Un dolore lancinante alla gamba lo immobilizza. Si rende conto, a poco a poco, di essere vivo: probabilmente i miliziani lo hanno scaraventato giù da una macchina in corsa, credendolo morto e non volendo far sapere che la sua morte fosse avvenuta in cella.

Kotaiba si riaddormenta, nella speranza di far calmare il dolore. Quando si sveglia, riesce ad alzarsi: prova quindi a risalire verso la strada, arrancando come un vecchio mendicante. Nella mente iniziano a riaffiorare i ricordi della sua "vita precedente": non lontano di lì, dovrebbe abitare un suo amico, anche se – pensa – chissà se è vivo. Ahmad, così si chiama, è il figlio di uno sheikh locale, e forse c´è speranza che sia stato risparmiato dalla furia dei miliziani. Kotaiba non ha nulla in tasca, nemmeno le sue sigarette. E´ visibilmente dimagrito, ha i capelli lunghi, la barba incolta e sudicia: sembra un fantasma. Arriva nei pressi della casa di Ahmad, ben nascosto tra gli alberi, e riesce a vedere dei panni stesi sul balcone. Ahmad c´è, ma Kotaiba non sa nulla di lui da qualche mese: e se per salvarsi la vita avesse aderito allo Stato islamico? Sono tante, troppe le persone che sono state messe di fronte a questa scelta, aderire o morire. Ma Kotaiba è già morto una volta, e così, al calar della sera, si decide a bussare alla porta di casa.

"Kotaiba, Habibi!", Ahmad gli apre e lo accoglie giubilante. Kotaiba crolla. "Non ce la facevo più – mi racconta – avevo l´impressione di non bere da settimane". Ahmad lo aiuta a rimettersi in piedi e gli porta qualcosa da mangiare, insieme a un po´ di Coca cola. "Pensavo fossi morto, ho saputo che ti avevano preso quelli di Daesh", esordisce Ahmad, non appena Kotaiba rinsavisce sul suo divano. "Lo pensavo anche io", risponde, "ma mi sono ritrovato vicino al lago dopo essere svenuto. Che giorno è oggi?". "E´ il 2 settembre, Habibi". Kotaiba realizza di aver passato più di due mesi nelle mani dell´Isis. "Non puoi stare qui però, non è sicuro. I miliziani sono ovunque e mi controllano. Sei arrivato giusto un´ora dopo la pattuglia di quei cani".

Kotaiba sa bene che deve andarsene. "Ti chiedo un favore, Ahmad: devi andare a casa mia in qualche modo, e prendermi il tesserino da avvocato. E´ il mio unico documento, il passaporto me lo hanno sequestrato". Ahmad ci pensa, poi ha un´idea: andranno insieme, quella notte stessa, passando per una stradina secondaria, e Kotaiba aspetterà in macchina. Poi Ahmad lo accompagnerà fuori città, perché lì a Tabqa, un uomo passato per le prigioni dell´Isis e creduto morto, non può più restare.

Nel deserto ai margini della provincia di Raqqa, Kotaiba inizia a marciare come un beduino del Sahara. Mentre cammina, non ha nemmeno il tempo di realizzare il destino a cui è appena scampato, perché troppo forte è il desiderio di dissetarsi, di mangiare qualcosa. Dopo ore di marcia, incontra dei pastori che bevono il tè di fronte ad una piccola capanna. La vista dei quattro ha l´effetto della comparsa di un´oasi. Kotaiba si avvicina e viene subito accolto con calore, perché ha un aspetto pessimo. Non racconta nulla di quello che gli è accaduto, si limita a dire di essere scappato dalla città con l´arrivo dei miliziani, e di voler proseguire verso ovest. I pastori lo accolgono, gli danno del pane, del formaggio e un po´ d´acqua. Gli offrono anche delle cure di base, gli bendano la gamba che ha subito una piccola frattura, cercando di ricomporgliela. La sosta dura meno di un´ora, ma ha l´effetto di un week end in un centro benessere. Ringraziati i quattro riparte, verso ovest. Quando arriva sera si ferma ai piedi di una piccola duna di rocce, per riposare un po´.

Il giorno dopo, dopo chilometri in cui non aveva incontrato anima viva, vede in lontananza una pattuglia dell´Esercito siriano. Non è necessariamente una bella notizia, per diversi motivi: primo tra tutti, il fatto che potrebbe essere scambiato per un miliziano dell´Isis, pronto a farsi saltare in aria non appena arrivato nei pressi dei soldati; poi, i ragazzi come Kotaiba, quelli della sua fascia d´età, durante la guerra sono obbligati a servire nell´Esercito, volenti o nolenti. Per riflettere, però, è troppo tardi, perché ormai lo hanno visto. Kotaiba avanza alzando le mani, mentre caracolla, zoppica. Va incontro al checkpoint, verso i fucili spianati dei soldati.

I militari lo perquisiscono e gli chiedono da dove viene. Kotaiba a loro decide di raccontare in breve la sua storia, li deve anche convincere di non essere lui stesso un miliziano e di voler solamente arrivare a Damasco. L´interrogatorio che subisce nel deserto ha un ché di estraniante, ma con sua relativa sorpresa viene lasciato andare. Nessuno gli chiede di arruolarsi, forse per via della compassione che ispira. La fortuna sembra girare, perché mentre sta per andare via, passa una furgone che trasporta pelli di bestiame, bombole del gas e altri oggetti, ed è diretto proprio a Damasco. Sono i soldati a chiedere al conducente di caricare Kotaiba, che conciato com´è non ispira nessuna fiducia. L´uomo acconsente, e lo carica sul furgone. Il peggio sembra finalmente passato.

Arrivato a Damasco, dove non conosce nessuno, Kotaiba prova a chiedere ospitalità in giro, venendo però sempre respinto. Non solo perché non può permettersi di pagare nulla, ma anche perché viene da Raqqa: la gente è da un lato spaventata, perché la voce che gli abitanti di Raqqa abbiano in molti casi aderito all´Isis si è diffusa in modo incontrollato; dall´altro, in Siria – ad Aleppo e Damasco - chi viene da Raqqa viene guardato con sospetto. Esiste da tempo una sorta di sotterraneo pregiudizio nei confronti di chi proviene da quella zona della Siria, un po´ come la diffidenza che la gente di città prova nei confronti di chi viene dalla campagna, o come quella verso gli immigrati provenienti da paesi più poveri. Kotaiba è abituato a tutto questo, ci aveva già fatto i conti durante l´Università ad Aleppo, quando gli affittuari si erano più volte rifiutati di concedergli una stanza, costringendolo a dormire – in alcuni casi – all´addiaccio. E poi, tutto sembra più sopportabile, dopo aver passato quel che ha passato.

Passa una settimana in cui Kotaiba dorme in garage abbandonati, e un paio di volte in moschea. Quella settimana gli serve per rimettere insieme i pezzi, per pensare al da farsi, con l´unica compagnia delle sigarette. A Damasco non ci sono margini, e sopratutto c´è il rischio che venga fermato da altri soldati, meno compassionevoli dei precedenti, che lo potrebbero obbligare ad arruolarsi. Così – lui che non era mai uscito non solo dalla Siria, ma neanche dal triangolo Aleppo-Damasco-Raqqa – matura la decisione che lo porterà a iniziare la sua seconda vita: provare a raggiungere Beirut. Riesce a trovare un taxi collettivo che parte in serata, e al conducente è costretto a dare quasi tutto ciò che ha in tasca. Dopo qualche ora di viaggio, arrivano nella capitale libanese, e viene lasciato sulla strada dell´aeroporto internazionale Rafiq Hariri, vicino al campo profughi palestinese – ma oggi affollato anche da tantissimi siriani – di Burj el Barajneh. In tasca ha l´equivalente di dodici dollari, e un passato recente che è deciso a lasciarsi alle spalle per sempre.

A Beirut nemmeno conosce nessuno, tranne un ragazzo che non vede da anni, conosciuto durante il periodo universitario ad Aleppo, e non sente da qualche mese. Si ricorda però il nome dell´azienda in cui gli aveva detto di aver trovato lavoro. E´ una compagnia che si occupa di scaricare e caricare container, e si trova non lontano dall´aeroporto, a Dahye. Kotaiba ci va a piedi, costeggiando la statale dove sfrecciano le macchine. Arriva sotto la sede in piena notte, e decide di aspettare il mattino seguente, quando sicuramente incrocerà il suo amico che attacca a lavorare. L´ennesima notte all´aperto, e in una città sconosciuta, dove peraltro l´insofferenza diffusa verso l´enorme afflusso di siriani cresce giorno dopo giorno.

La sua solerzia viene ripagata, perché il mattino seguente viene svegliato da un impiegato che sta entrando in ufficio. Kotaiba gli chiede del suo amico e, nel giro di cinque minuti, Naser – così si chiama – compare. Dopo averlo abbracciato, lo riporta pian piano nel mondo, aiutandolo a inaugurare una nuova fase della sua esistenza. Non si separeranno più, anche perché Naser lo farà entrare nell´azienda, e lavoreranno spesso insieme. Nei mesi seguenti, Kotaiba troverà una sistemazione in un appartamento condiviso con altri otto siriani, all´interno del quale potrà anche riconnettersi col mondo virtuale, e conoscere la ragazza siriana, Bisan, con cui oggi vive a Beirut e progetta di avere una famiglia. Bisan è anche la prima persona al mondo a cui racconterà nei dettagli la sua storia, prima ancora di incontrarla di persona in una libreria di Beirut, che oggi è lo screensaver del suo cellulare.

Non sarà facile sopratutto il primo anno, in cui Kotaiba lavora in due diversi luoghi ai due capi opposti della città, riposando tre ore al giorno. Deve mantenere lui – affidandosi spesso a corrieri poco affidabili per mandare soldi in Siria – la numerosa famiglia: la sorella rimasta col marito in un villaggio controllato dall´Isis (che gli impedisce di uscire di casa), i genitori nel frattempo trasferitisi a Suwayda con il piccolo Ammar, affetto da sindrome di down, il fratello che fa l´Università ad Hasaka e un altro che vive ad Aleppo. Famiglia a cui non ha mai raccontato la sua vicenda, e forse mai lo farà. Tuttora, Kotaiba ha difficoltà a dormire, la sua ragazza spesso mi racconta che la sua gamba destra di notte cade in preda a spasmi, come fosse indipendente dal resto del corpo. A volte si sveglia in preda ad incubi, oppure grida durante il sonno, reagendo male al contatto fisico.

Quando viene arrestato da Hezbollah, in quella notte di novembre 2013, Kotaiba viene trattato come un terrorista. Dopo aver raccontato la sua storia al comandante, invece, viene fatto uscire da martire, da eroe, con tutti gli onori che da queste parti si riservano a chi esce vivo dalla guerra. Gli vengono fatte addirittura delle scuse. Avrebbe forse tutto il diritto di avercela con Hezbollah, con il Libano, con il mondo.

Quando gli chiedo se oggi serbi sentimenti del genere verso chi lo ha arrestato, la risposta che mi fornisce mi lascia interdetto, perché è una risposta che, se fossimo in un film – come in effetti sembra la vicenda di Kotaiba – lascerebbe un retrogusto di gratuita retorica, come quella dei film un po´ banali. "No, io non ce l´ho con Hezbollah, capivo la loro paranoia, e non ce l´ho con nessuno. Vuoi che sia sincero? Io non ce l´ho nemmeno con Daesh, anzi li ringrazio. Perché senza quell´esperienza, oggi non sarei la persona che sono. Non avrei conosciuto Bisan, non sarei qui, non potrei immaginare un futuro come lo immagino ora. Oggi do´ il giusto valore alle cose, traggo il massimo da tutto quel che mi accade, ho imparato anche a non prendermi sul serio. Quando vedi la faccia orrenda della morte, quella della vita, qualunque vita, ti sembra sempre sorridente. E io oggi non potrei chiedere di meglio".

 

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