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SC: licenziabile in tronco chi su Fb diffama il capo, anche se non ne fa il nome

Quanti sono i dipendenti, pubblici e privati, in atto licenziabili in Italia per aver parlato male della propria azienda su Facebook? Tanti, sicuramente, a giudicare dalla facilità con cui, per ragioni più o meno plausibili ed argomenti che hanno a che fare quasi sempre con la sfera personale, in tantissimi son soliti utilizzare i social, ed in particolare facebook, per esprimere giudizi non proprio lusinghieri contro il capo ufficio, o addirittura contro il legale rappresentante: il presidente o l´amministratore dell´azienda, un dirigente pubblico o un´altra figura collocata in alto nella piramide gerarchica. Un diverso modo di pensare, una critica ragionata e condotta con toni corretti? Questo non è un problema. Il problema, invece, e quando, magari sull´onda emotiva di un provvedimento punitivo o di un lavoro non proprio gratificante, alcuni leoni da tastiera mollano ogni regola di prudenza e si lanciano in condotte che sfiorano o integrano il reato di diffamazione. E qui possono essere guai seri.

Finora, anche se in molti casi offese contumelie gratuite o irriguardose avevano condotto gli interessati a sporgere querela, non si era assistiti ad una sentenza, come quella della Suprema Corte che ci accingiamo a commentare, che abbia sostanzialmente dichiarato la piena legittimità di un licenziamento per giusta causa irrogato nei confronti di un dipendente proprio sulla base di quanto prima detto, e cioè per avere dileggiato gratuitamente, e naturalmente in modo grave, il decoro o la reputazione di un rappresentante dell´azienda presso la quale prestava servizio.

Nel caso culminato con il pronunciamento della Cassazione, si trattava di una azienda privata ma i principi enucleati dalla Suprema Corte ben possono prestarsi anche ad essere applicati nel caso di aziende pubbliche.
In particolare, la dipendente in questione - che era stata licenziata dall´azienda presso la quale lavorava - un´impresa di commercio di sistemi antifurto e sicurezza - a causa di «affermazioni pubblicate» dalla donna sulla propria «bacheca virtuale di Facebook» in cui si esprimeva «disprezzo» per l´azienda («mi sono rotta i c... di questo posto di m.... e per la proprietà»), aveva proposto ricorso in cassazione per l´annullamento del provvedimento solutorio posto in essere dall´impresa a proprio carico.

Infatti, prima la stessa azienda e poi i giudici di merito, nella fattispecie il Tribunale di Forlì e la Corte d´Appello di Bologna, avevano ritenuto del tutto irrilevante che la donna non avesse nei post incriminati inserito le generalità precise dei soggetti danneggiati. Non può costituire una scriminante, avevano sottolineato, considerato che, facendosi il nome dell´azienda o comunque rendendola riconoscibile, i suoi vertici erano facilmente individuabili.

Senonché, la Suprema Corte, con una sentenza depositata ieri,27 aprile 2018, ha respinto in toto il ricorso della donna e confermato la legittimità del licenziamento.
Rilevando che «la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l´uso di una bacheca "Facebook" integra un´ipotesi di diffamazione, per la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, posto che il rapporto interpersonale, proprio per il mezzo utilizzato, assume un profilo allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione». Elemento che «comporta che la condotta di postare un commento su Facebook realizza la pubblicizzazione e la diffusione di esso, per la idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica, con la conseguenza che, se, come nella specie, lo stesso è offensivo nei riguardi di persone facilmente individuabili, la relativa condotta integra gli estremi della diffamazione e come tale correttamente il contegno è stato valutato in termini di giusta causa del recesso, in quanto idoneo a recidere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo».

 

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