Sabino Cassese, ordinario di Diritto costituzionale e Giudice emerito della Consulta, interviene in merito all´importante accordo tra le corti supreme italiane, la Corte di cassazione, il Consiglio di Stato e la Corte dei conti, e i procuratori generali presso la prima e la terza corte, accordo firmato dai presidenti e dai procuratori generali il 15 maggio*
Un gruppo di lavoro promosso da Italiadecide, l´Associazione per la qualità delle politiche pubbliche diretta da Luciano Violante, ha concluso i suoi lavori ponendo le basi per un accordo tra le corti supreme italiane, la Corte di cassazione, il Consiglio di Stato e la Corte dei conti, e i procuratori generali presso la prima e la terza corte, accordo che è stato poi firmato dai presidenti e dai procuratori generali il 15 maggio scorso. Questo accordo costituisce una pietra miliare nella storia della giustizia italiana. Provo a spiegare perché.
Partiamo da lontano. Lo Stato contemporaneo, quello italiano in particolare, non è solo lo Stato hobbesiano che assicura sicurezza e pace all´interno, ma è — come dicono i tedeschi — Jurisdiktionsstaat: in esso i giudici sono onnipresenti, non c´è area immune dalla giurisdizione. Basti pensare alla enorme crescita del numero di sentenze rispetto alla crescita della popolazione, e — procedendo a ritroso — alla quantità di conflitti che finiscono davanti ai giudici, conflitti dovuti anche all´aumento delle aree regolate da leggi.
Con la moltiplicazione dei giudizi e delle sentenze, aumenta il pericolo che ogni giudice vada per conto suo, lasciando il cittadino senza quella sicura guida sulla interpretazione e applicazione del diritto che l´ordinamento giuridico dovrebbe garantire. Questo problema è accentuato dalla penetrazione nell´ordine giuridico nazionale di almeno altri due nuovi produttori di norme e di sentenze, l´Unione Europea con la Corte di giustizia europea e il Consiglio d´Europa con la Corte europea dei diritti dell´uomo.
Occorre, allora, armonizzare l´operato delle corti, specialmente quelle supreme, stabilire canali di dialogo istituzionalizzato, garantire cooperazione, specialmente tra i giudici che sono al vertice, i tre che ho menzionato all´inizio, che sono i giudici legittimati a eleggere propri componenti nella Corte costituzionale.
Ecco, quindi, l´idea del «memorandum», l´accordo firmato il 15 maggio scorso, tra i vertici giudiziari. Un accordo difficile, che ha pochi precedenti. Difficile perché la tradizione culturale italiana considera ciascun giudice una turris eburnea, un polo isolato da tutti gli altri, che decide da solo, in silenzio, senza guardare ad altro che non sia il caso che ha davanti.
Per questo motivo, si tratta anche di un accordo che ha pochi precedenti. In Italia, quello illustre del «concordato giurisprudenziale» del 1929, firmato da Mariano D´Amelio, presidente della Cassazione, e da Santi Romano, presidente del Consiglio di Stato, e successivamente ratificato dalle Sezioni unite della Cassazione e dall´Adunanza plenaria del Consiglio di Stato. Ma quell´accordo aveva un unico oggetto, la stabilizzazione dei criteri del riparto della giurisdizione tra giudice civile e giudice amministrativo. L´altro precedente non è italiano, ed è l´accordo Skouris-Costa del 2011. Lo firmarono il presidente della Corte di giustizia europea e il presidente della Corte europea dei diritti dell´uomo, ed aveva anche esso una portata limitata (all´applicazione della Carta di Nizza e all´adesione dell´Unione Europea alla Convenzione europea dei diritti dell´uomo).
L´importanza e la novità del nuovo accordo, quello sottoscritto a maggio, stanno nel fatto che questo è il primo passo per una cooperazione stabile e che esso non ha oggetti pre-definiti, ma si estende su tutta l´area della giurisdizione. Con il nuovo accordo, avremo una attenzione maggiore all´attività delle giurisdizioni superiori che viene chiamata nomofilattica. Queste debbono assicurare l´uniforme interpretazione della legge e l´unità del diritto, garantire indirizzi interpretativi uniformi, in una parola assicurare l´unità dell´ordinamento.
Si tratta di «beni» che sono divenuti rari, considerati il moltiplicarsi delle corti, il ricorso sempre più frequente dei cittadini ad esse, ma anche la confusione della nostra legislazione, l´aumento dei produttori di diritto (Unione Europea, Stato, Regioni, ma anche organismi globali), nonché il cosiddetto dualismo giurisdizionale che fa parte della tradizione italiana (come di quella francese), cioè il fatto che vi sono due giudici, uno civile, uno amministrativo. In conclusione, è un gran bene che tre presidenti illuminati e due procuratori generali aperti alle esigenze della collettività, con l´aiuto di una attiva fondazione privata, abbiano posto le premesse perché il moderno État de justice non parli con troppe voci discordanti.
* pubblicato sul Corriere della Sera.it il 19 luglio 2017