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Con la pronuncia n. 24952 dello scorso 4 giugno, la Cassazione analizza a quali condizioni il rifiuto del medico di proseguire e terminare un intervento chirurgico integra il delitto di rifiuto di atti di ufficio, ritenendo che il reato non è integrato, perché il fatto non sussiste, se il rifiuto non è indebito e l'atto rifiutato è differibile.
Si è, quindi, considerato legittimo il comportamento del medico che non aveva portato a termine un'operazione su una paziente a rischio ed in assenza del secondo chirurgo.
Un dirigente medico rifiutava di portare a termine un intervento chirurgico di safenectomia su una paziente, già anestetizzata e sulla quale si era già praticato l'incisione cutanea e sottocutanea propedeutica all'asportazione della vena grande safena.
In particolare, il sanitario decideva di non proseguire nell'intervento ritenendo di essere al limite della copertura anestetica – considerate le possibili complicanze che potevano sorgere nel corso dell'operazione su quella paziente ipertesa, obesa e cardiopatica – ed un dolore così intenso, quale è quello che si prova intervenendo su una vena, avrebbe potuto provocare in soggetto cardiopatico anche il decesso; a determinarlo in tale scelta, inoltre, vi è stata anche l'assenza del secondo chirurgo, presenza ritenuta essenziale per la delicatezza dell'intervento.
Nel corso del giudizio di merito, la Corte di Appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, lo ha ritenuto colpevole del reato di rifiuto di atti di ufficio di cui all'art. 328 c.p., addebitando all'imputato – che aveva comunque iniziato l'intervento, anche se in assenza del secondo operatore – l'impazienza nell'attesa del collega e affermando che egli non aveva adeguatamente tenuto conto delle ragioni di salute della paziente da operare, esposta, a causa di quella interruzione, ai disagi di un successivo intervento.
Ricorrendo in Cassazione, il sanitario – ribadendo le valutazioni cliniche poste a fondamento di quella decisione – censurava la sentenza impugnata nella parte in cui aveva omesso di motivare in ordine alla sua consapevole volontà di violare i doveri impostigli rispetto ad un intervento non urgente e sicuramente differibile
Proprio in relazione a tale aspetto, la Cassazione condivide pienamente la tesi difensiva dell'imputato.
L'art. 328 c.p. incrimina, infatti, l'incaricato del pubblico servizio che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio che, per ragioni di igiene o di sanità, deve essere compiuto senza ritardo: gli Ermellini evidenziano, quindi, che i requisiti richiesti dalla fattispecie incriminatrice sono proprio la natura indebita del rifiuto e l'indifferibilità dell'atto rifiutato, elementi non presenti nel caso sottoposto alla loro attenzione.
In relazione alla natura indebita del rifiuto, i Giudici di merito hanno dato rilievo alle sole ragioni di salute della paziente, senza tuttavia considerare che tra queste ragioni vi è anche quella – primaria, assolutamente cogente e scrupolosamente vagliata dallo stesso imputato – di essere operata in condizioni di sicurezza: condizioni di sicurezza che, secondo la Cassazione, erano del tutto mancanti, in ragione della condizione clinica della paziente, della durata limitata dell'effetto anestetico e della mancanza del secondo medico.
In relazione all'indifferibilità dell'atto rifiutato, la Cassazione evidenzia come la motivazione della sentenza impugnata non si sia soffermata affatto sulla sussistenza o meno di siffatto requisito. Requisito che, secondo la Corte, è sicuramente mancante nel caso di specie: l'intervento di safenectomia, oltre ad avere incontestata natura elettiva, non era neanche urgente; di contro, nessuna rilevanza potrebbe avere, sul punto, l'opportunità di evitare il disagio della paziente per il successivo intervento.
In conclusione la Cassazione – rilevata l'assenza dei surriferiti elementi, la cui sussistenza è necessaria alla integrazione dell'elemento oggettivo del reato in contestazione – annulla, senza rinvio, la sentenza impugnata, assolvendo l'imputato con la formula "perché il fatto non sussiste".
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