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Una riflessione a tutto campo, che interviene a seguito dell'approvazione del ddl "Concorrenza", che ha consentito l'ingresso di capitale negli studi legali. Una decisione controversa, che secondo il consiglio direttivo nazionale di MGA - mobilitazione generale degli avvocati - l'associazione forense che da anni, costituitasi in sindacato forense, ha svolto una ferma opposizione nei confronti dell'attuale establishment, anche ai fini della tutela del lavoro dipendente "di fatto" all'interno degli studi legali medio-grandi, ha recentemente proposto, attraverso un comunicato postato dal suo presidente, Nicola matteucci, nel gruppo della stessa associazione, e che, data la sua rilevanza, pubblichiamo in questo portale ai fini di una comune riflessione.
Ecco il testo:
L' approvazione del ddl "Concorrenza" ha spalancato le porte degli studi legali ai soci capitalisti. Abbiamo già scritto della nostra contrarietà alla previsione per gli studi legali di modelli organizzativi che consentano la partecipazione di soci non iscritti all'albo professionale, e conferenti quote di capitale.
Oggi con ancora più forza ribadiamo questa contrarietà, per diverse ragioni.
In linea di principio, riteniamo che il socio capitalista sia incompatibile con la fondamentale funzione pubblica dell'avvocatura. L'avvocato è titolare della funzione essenziale delineata dall'art. 24 della Costituzione, la difesa dei diritti delle persone, che lo Stato assume come propria ed esclusiva (tant'è che punisce la ragion fattasi): affidandola ad un soggetto privato, che è deputato con altri soggetti (questi squisitamente pubblici) alla piena attuazione del potere giurisdizionale dello Stato.
Questa particolare natura della funzione difensiva (pubblicistica nel senso appena chiarito) trova riscontro nella norma dell'ordinamento forense che rende incompatibile la professione di avvocato con qualsiasi altra attivita' di lavoro autonomo, con l'esercizio di qualsiasi attivita' di impresa commerciale, con la qualità di socio in società di persone che esercitino impresa commerciale e con l'assunzione di cariche direttive nelle società di capitali (nonchè con qualsiasi tipo di lavoro subordinato).
L'esercizio dell'impresa da parte dell'avvocato è considerata, dalla legge professionale forense, come fonte di un possibile vulnus allo svolgersi in piena indipendenza della funzione difensiva. Le Sezioni Unite della Corte di cassazione, nella vigenza della legge professionale del 1933 (in cui pure era prevista l'incompatibilità in questione), si sono espresse con chiarezza circa la ratio della incompatibilità fra la figura dell'avvocato e quella dell'imprenditore, rilevando che: "Le attività il cui esercizio è ritenuto incompatibile, a norma dell'art. 3 del r.d.l. 27-11-33 n. 1578 con le professioni forensi non sono caratterizzate dalla professionalità, ossia dalla normalità del loro esercizio in vista dell'attitudine a produrre reddito, bensì dalla idoneità che può, di volta in volta, derivare dall'essere dirette alla cura d'interessi che possono interferire nell'esercizio delle suddette professioni, ovvero dalla subordinazione che esse determinano nei confronti dei terzi, ovvero, infine, dai poteri che comportano in chi le esercita" (Sez. Un. sent. n. 2848 del 19-7-76).
Ed è quindi chiaramente visibile il paradosso, se si accostano le incompatibilità previste dal nostro ordinamento professionale e la previsione del socio di capitale negli studi legali.
L'avvocato non può fare impresa per non mettere a rischio la sua indipendenza. Specularmente invece l'impresa può "fare l'avvocato", senza che si ravvisi il rischio - evidentissimo però - che il socio di capitale possa, col suo peso economico, imporre scelte difensive, selezione di clientela, politiche "di studio" nell'esercizio di quella stessa funzione difensiva; la quale dunque, col ddl concorrenza, cade definitivamente nell'abbraccio mortale del capitale e del mercato.
Autonomia e indipendenza dogmi sì, ma solo a tratti, e solo quando si tratta di voler negare tutela a scandalose situazioni di sfruttamento dei lavoratori-avvocati, note a chiunque ma negate da troppi? Separazione netta fra avvocato e impresa a intermittenza, e solo quando si tratta di vietare all'avvocato di provincia la exit strategy della piccola attività collaterale?
No, il socio di capitale nello studio legale non è accettabile.
Nè se si voglia discutere, come sin qui sommariamente fatto, dei principi e delle guarentigie classiche dell'avvocatura; ma nemmeno se si voglia guardare ad una corretta ed equa politica economica dell'avvocatura.
ll punto è che il capitale negli studi legali può portare vantaggi solo al capitale stesso; giacchè va nella direzione opposta a quella - necessaria per la sopravvivenza di larga parte della categoria e quindi della categoria stessa - della creazione di nuove occasioni di reddito e dell'attuazione di una concreta redistribuzione delle risorse.
Da un lato, infatti, il capitale non si dirigerà verso i piccoli studi, quelli che necessiterebbero di un potenziamento (e di maggiore equità) per sopravvivere. Il socio di capitali è soggetto alla legge del mercato: si investe dove c'è speranza dei maggiori profitti. Solo gli studi già grandi e strutturati in forma (latente) di impresa avranno la capacità quindi di attirare gli investitori: con il risultato di creare, grazie al capitale, condizioni per una concentrazione ancora maggiore delle risorse e della clientela nelle mani di chi, di fatto, già le ha; e per un'ulteriore erosione, nel breve periodo, dei margini di reddito già asfittico dei quaranta - cinquantenni organizzati in studi "mononucleari" (ossia la fetta numericamente più consistente e più in difficoltà dell'avvocatura).
Dall'altro lato, la creazione o la crescita di grandi law firm ad alta concentrazione di clientela accrescerà, nel lungo periodo, la domanda di manodopera forense disposta ad essere organizzata e a lavorare sotto le direttive dei soci (fra cui, of course, il socio capitalista). I giovani iscritti all'albo, consapevoli dell'assenza quasi totale di chances sul mercato come liberi professionisti, si dirigeranno sempre più verso la vita dell'avvocato di fatto dipendente in studio legale altrui.
La regolamentazione della figura dell'avvocato dipendente di altro avvocato (o di società di avvocati) a maggior ragione non è dunque più rinviabile; nè, chi approva l'introduzione del socio di capitale può appellarsi in contrario ad un malinteso principio di autonomia del professionista: perchè a noi fa di gran lunga più paura l'influenza del socio di capitale sugli indirizzi di uno studio legale, piuttosto che un avvocato sottoposto alla supervisione del dominus ma libero da condizionamenti che con l'avvocatura nulla hanno a che fare.
Il progetto di legge Gribaudo-Maestri- Paris, elaborato da MGA e CGIL (AC4408), di prossima calendarizzazione alla Camera, si propone di sanare molte situazioni di inaccettabile sfruttamento di colleghi dipendenti di fatto; ma si propone soprattutto di introdurre regole chiare sui diritti dei lavoratori-avvocati, per porre un argine al mercato che con il ddl Concorrenza ha fatto irruzione, ufficialmente, nella giurisdizione.
Crediamo che l'avvocatura e le forze politiche che credono nei diritti più che nel profitto e nel mercato dovrebbe sostenere unite la proposta.
Ad maiora.
M.G.A.
Il C.D.N.
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