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Malattia psichica e rendita INAIL: Cassazione su nesso causalità e onere probatorio

Il principio è stato affermato dalla Suprema Corte di Cassazione con sentenza n. 17710/2016 della Sezione Lavoro, depositata il 7 settembre.
Nel caso in esame, avente ad oggetto la richiesta di una lavoratrice volta alla condanna dell´Inail alla costituzione della rendita di cui all´art. 13, comma 2, lett. b), del d.lgs. n. 38/2000 per malattia professionale o, in subordine, per infortunio sul lavoro pari al grado di inabilità del 24% o, in via gradata, alla corresponsione dell´indennizzo di cui alla lettera a) della predetta norma o, in ultima analisi, al riconoscimento di un grado di inabilità compreso fra il 6% ed il 15% per lo stesso infortunio, con decorrenza dalla data della denunzia della medesima, la Corte d´appello di Milano - sezione lavoro, con sentenza del 21 - 23/6/2010, aveva rigettato l´impugnazione della lavoratrice avverso la sentenza del giudice di prime cure che ne aveva respinto la domanda, in considerazione della mancanza di prova, sia in ordine alla natura professionale della malattia, sia in merito alla responsabilità del datore di lavoro per la sua insorgenza.
Per la riforma di tale sentenza, veniva proposto ricorso in Casszione dalla lavoratrice, ricorso rigettato con la pronuncia in commento.
Quali le ragioni che hanno indotto la Cassazione a confermare la sentenza della Corte ?
La ricorrente, hanno subito rilevato i supremi giudici, ha contrapposto alla valutazione del giudice di appello, un diverso apprezzamento dell´origine della patologia riscontrata a suo carico, senza evidenziare alcuna specifica carenza o deficienza diagnostica o errore scientifico.
In realtà, ha precisato il Supremo Collegio, la Corte territoriale, con motivazione adeguata ed esente da rilievi di legittimità, ha posto bene in evidenza che nel giudizio di primo grado era emerso che la ricorrente ebbe a manifestare disagio e problematiche di natura psichica quando ancora si trovava in Germania e svolgeva mansioni dalla medesima ritenute gratificanti, aggiungendo che la teste C. aveva riferito che era stato il padre dell´appellante a richiedere che la stessa venisse trasferita in Italia onde poter stare vicino alla famiglia di origine, viste le difficoltà psicologiche nelle quali si trovava, difficoltà che erano state confermate anche dalle colleghe tedesche.
Ha, altresì, bene precisato la Corte - ha aggiunto la Sezione - che, come confermato dalle prove testimoniali assunte, la ricorrente, a causa del suo stato psicofisico compromesso, non appena rientrata in Italia non fu più in grado di prestare una proficua attività lavorativa, nonostante la società si fosse mostrata disponibile nei suoi confronti.
Considerazioni che hanno condotto i Supremi Giudici a concordare con la Corte territoriale, che ha tratto la logica conclusione che bene aveva fatto il primo giudice a rigettare la domanda, stante la mancanza di qualsiasi prova in relazione alla natura professionale della malattia e alla riconducibilità dell´insorgenza della stessa ad un´ipotetica responsabilità della società italiana, ritenendo, in tal modo, superflua l´ammissione della consulenza tecnica d´ufficio richiesta dalla ricorrente.
D´altra parte, riportandosi alla propria giurisprudenza, in tema di giudizio di cassazione, la deduzione di un vizio dì motivazione della sentenza impugnata conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l´attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all´uno o all´altro dei mezzi di prova acquisiti.
Ciò ha condotto i Supremi Giudici a confermare quanto precedentemente statuito non accogliendo le doglianze riferite da parte ricorrente che non incidevano per nulla sulla "ratio decidendi", con conseguente rigetto del ricorso.
Sentenza allegata.



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