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Nonostante siano passati molti anni dalla sua dipartita, continua ancora ad essere presente, con le riedizioni dei suoi libri, con la pubblicazione dei suoi saggi, con le sue prese di posizione, mai banali, tutt'altro, con i riferimenti di questo scrittore che possiamo, senza ombra di dubbio, definire uno dei più importanti scrittori del Novecento.
Da una recensione su una rivista settimanale, leggo di quest'opera, "Storia della mafia", pubblicata nel 2013, dalla casa editrice Barion, la cui proprietà appartiene alla casa editrice Ugo Mursia.
Un saggio di 37 pagine che era stato già pubblicato nell'aprile 1972 nella rivista "Storia illustrata".
Il libro, oltre al saggio di Sciascia, contiene un ricordo di Giancarlo Macaluso, "Io Nanà e i Don" e una post fazione di Salvatore Ferlita.
Leonardo Sciascia nel 1961, pubblica "Il giorno della civetta", il primo libro che in forma di romanzo denuncia il cambiamento della "pelle" della mafia siciliana. Il passaggio di un'associazione di malavitosi che spostano i loro interessi dal mondo della campagna alle grandi città della Sicilia, Palermo, Trapani e Catania con l'orizzonte, dopo riuscito perfettamente, di spostare i loro interessi nelle Regioni italiane, ma anche in campo internazionale.
Il letterato che si trasforma in ricercatore d'archivio per ripercorrere i sentieri del malaffare, la giusta e corretta collocazione, spazio-temporale, di un fenomeno di cui la Sicilia non è riuscita a rompere quelle catene che la relegano e la connaturano, non sempre con ragione, come terra del malaffare.
Il saggio inizia con la citazione del primo vocabolario del dialetto siciliano di Antonino Traina 1868, dove alla parola "maffia", scritta don due effe, spiegata come fenomeno portato in Sicilia dai funzionari piemontesi, arrivati in Sicilia dopo l'Unità d'Italia.
E questo concetto viene riproposto anche da personaggi che occupano posti di rilievo nella cultura siciliana come lo scrittore Luigi Capuana e l'etnoantropologo Giuseppe Pitrè.
Scrive Sciascia: "Il Pitrè, rispetto al Traina, toglie al mafioso brutalità e prepotenza e le attribuisce agli altri, a quelli contro cui il mafioso si ribella, sicché la mafia altro non sarebbe che un sentimento di libertà, un atteggiamento di fierezza, contro le angherie dei potenti e la inettitudine della legge e dei pubblici poteri".
Ma il Pitrè e il Capuana non erano i soli studiosi a pensarla così, ma anche gli uomini di cultura, i politici, i magistrati esprimevano simili idee.
Moltissimi magistrati siciliani avevano idee poco chiare sul fenomeno mafioso. Accanto ad altri che non esitavano a denunciare le caratteristiche tipiche del fenomeno mafioso. E puntualmente venivano trasferiti altrove.
Il saggio, pur nella loro drammaticità, offre parecchie citazioni di casi avvenuti.
Interessante quello del magistrato Giuseppe Rizzotto, reo di aver scritto che la mafia era un'associazione di delinquenti, venne trasferito alla Procura generale di Torino.
Ma Sciascia non dimentica di presentarci figure, anche se poche, che hanno operato in momenti molto difficili affinché sulla mafia ci fossero concordanze di vedute.
Dal Procuratore generale del tribunale di Agrigento, Alessandro Mirabile a Bernardino Verro, leader dei Fasci dei lavoratori (1891-1894) a Napoleone Colajanni.
Don Pietro Ulloa, Procuratore generale di Trapani, nel 1838, quando ancora il termine "mafia" non era iscritto nel dizionario, presentò una relazione in cui scriveva: "Non c'è impiegato in Sicilia che non si sia prostrato al cenno di un prepotente e che non abbia pensato a trarre profitto dal suo ufficio. Questa generale corruzione ha fatto ricorrere il popolo a rimedi oltremodo strani e pericolosi".
Partendo dalla lettura della relazione di don Pietro Ulloa, Sciascia affronta una delle cause della nascita della mafia, che trova posto in una narrazione corretta, in un mare di contraddizioni : il rapporto tra nobiltà feudale, che vantava il diritto di vita o di morte, il famoso "mero e misto impero", e i contadini, i gabellotti e i campieri e gli abitanti dei paesi e delle campagne.
Non avendo avuto la Sicilia una classe feudale progressista, si avviava al declino mettendo in mano le proprie ricchezze agli "uomini di rispetto" dell'epoca.
La mafia, così, si trovò nelle condizioni di traghettare la ricchezza dai baroni ai propri dipendenti mafiosi.
Un libretto che si legge tutto d'un fiato, ricco di notizie e di elementi interessanti.
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Rosario Antonio Rizzo
Dopo il conseguimento del diploma di insegnante di scuola elementare all’Istituto magistrale “Giuseppe Mazzini” di Vittoria, 1962, si reca in Svizzera, dove insegna, dal 1964 al 1975, in una scuola elementare del Canton Ticino.
Dal 1975 al 1999 insegna in una scuola media, sempre nel Canton Ticino e, in corso di insegnamento dal 1975 al 1977 presso l’Università di Pavia, acquisisce un titolo svizzero, “Maestro di scuola maggiore” per l’insegnamento alla scuola media. Vive tra Niscemi e il Canton Ticino. Ha collaborato a: “Libera Stampa”, quotidiano del Partito socialista ticinese; “Verifiche” bimensile ticinese di scuola cultura e società”; “Avvenire dei lavoratori”; “Storia della Svizzera per l’emigrazione”“Edilizia svizzera”. In Italia: “Critica sociale”; “Avanti”; Annali” del Centro Studi Feliciano Rossitto; “Pagine del Sud”; “Colapesce”; “Archivio Nisseno”.