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Hans Kelsen (Praga, 11 ottobre 1881 – Berkeley, 19 aprile 1973) è stato un giurista e filosofo austriaco, tra i più importanti teorici del diritto del Novecento e il maggior esponente del normativismo.
Di nazionalità austriaca, nel 1933, per via della ascesa del nazismo in Germania e della sua origine ebraica, Kelsen dovette lasciare la sua carica universitaria, trasferendosi a Ginevra e, nel 1940, negli Stati Uniti. Nel 1934, Nathan Roscoe Pound lodò Kelsen descrivendolo come "senza dubbio il più importante giurista del tempo". Mentre era a Vienna Kelsen fu un giovane collega di Sigmund Freud e qui scrisse sul tema della psicologia sociale e della sociologia.
Nel 1940, negli Stati Uniti la reputazione di Kelsen era già ben consolidata per la sua difesa della democrazia e per la sua grande opera "La dottrina pura del diritto" (Reine Rechtslehre). La sua produzione accademica superò la sola teoria legale ed estese la filosofia politica e la teoria sociale. La sua influenza comprese i campi della filosofia, della scienza giuridica, della sociologia, della teoria della democrazia e delle relazioni internazionali.
Verso la fine della sua carriera, mentre insegnava all'Università della California, Berkeley, Kelsen riscrisse "La dottrina pura del diritto" in una seconda versione. Durante la sua carriera dette anche un contributo significativo alla teoria del controllo giurisdizionale, alla teoria gerarchica e alla dinamica del diritto positivo, alla scienza del diritto. Nella filosofia politica fu un difensore della teoria dell'identità dello stato di diritto e un sostenitore della posizione della separazione dei concetti di Stato e della società nel loro rapporto con lo studio della scienza del diritto.
L'accoglienza e la critica del suo lavoro ha avuto sia forti sostenitori sia detrattori. I contributi di Kelsen alla teoria giuridica dei processi di Norimberga sono stati accolti e contestati da vari autori, tra cui Dinstein, ricercatore presso l'Università Ebraica di Gerusalemme. La difesa kelseniana del neokantismo e del positivismo giuridico continentale, è stata sostenuta da Herbert Lionel Adolphus Hart nella sua forma in contrasto con il positivismo giuridico anglo-statunitense.
La giustizia è la dimensione morale del diritto. Essa è l'"idea" platonica o la "cosa in sé" kantiana nel campo del diritto.
H. Kelsen, Reine Rechtslehre. Einleitung in die rechtswissenschaftliche Problematik, Wien, 1934; trad. it. Lineamenti di dottrina pura del diritto, a cura di R. Treves, Einaudi, Torino 1967, pagg. 57-58
Come categoria morale, il diritto non significa altro che "giustizia". Questa è semplicemente l'espressione dell'ordinamento sociale giusto, d'un ordinamento che raggiunge completamente il suo scopo in quanto soddisfa tutti. La tendenza verso la giustizia psicologicamente considerata è la tendenza eterna dell'uomo alla felicità che egli non può trovare come individuo e che per ciò ricerca nella società. La felicità sociale si chiama giustizia.
In verità tale parola è anche usata nel senso di positiva conformità col diritto e particolarmente di legalità. In questo senso appare "ingiusto" il fatto che una norma generale venga applicata in un caso e non invece in un altro che tuttavia è considerato analogo; e questo fatto appare "ingiusto" prescindendo dal valore della norma generale stessa. Secondo questo modo di dire, il giudizio di giustizia esprime soltanto il valore relativo della conformità con la norma. "Giusto" è qui soltanto una parola diversa per dire "legale".
"Giustizia" nel significato che le è proprio e che la differenzia dal diritto esprime però un valore assoluto. Il suo contenuto non può essere determinato dalla dottrina pura del diritto. Anzi, esso non è in alcun modo determinabile dalla conoscenza razionale, e ciò è ben dimostrato dalla storia dello spirito umano che da millenni si sforza inutilmente di risolvere questo problema. Infatti la giustizia, che deve essere rappresentata come un ordinamento superiore che sta di fronte al diritto positivo e che è diverso da questo, nella sua validità assoluta sta al di là della realtà o come la cosa in sé trascendente sta al di là dei fenomeni. Il dualismo di giustizia e diritto ha lo stesso carattere metafisico del dualismo ontologico e come questo, cosí anche quello, ha una duplice funzione a seconda della tendenza ottimistica o pessimistica, conservatrice o rivoluzionaria con cui si presenta: secondo che in un caso si affermi che il dato, cioè l'ordinamento dello Stato e della società, coincide con l'ideale o in un altro caso si neghi questa coincidenza dicendo che è in contrasto. Come è impossibile (secondo quanto già si può presupporre) determinare mediante la conoscenza scientifica, cioè per mezzo di una conoscenza razionale orientata verso l'esperienza, l'essenza dell'idea o della cosa in sé, cosí è impossibile rispondere per la stessa via alla domanda: in che cosa consiste la giustizia. Tutti i tentativi di questo tipo hanno condotto finora a formule completamente vuote: "fa' il bene ed evita il male", "a ciascuno il suo", "mantieniti nei giusto mezzo". Anche l'imperativo categorico è completamente privo di contenuto. Se per la determinazione del dovere come valore assoluto ci si rivolge alla scienza questa non sa dirci altro: tu devi ciò che devi.
È questa una tautologia dietro la quale si nasconde in varia forma e in laborioso travisamento il principio logico dell'identità, il giudizio che il buono è buono e non cattivo, che il giusto è giusto e non ingiusto, che a è uguale ad a e non è non a. La giustizia, ideale della volontà e della azione; fatta oggetto di conoscenza, deve trasformarsi inopinatamente nell'idea della verità che trova la sua espressione negativa nel principio di identità. Questo snaturamento del problema è la conseguenza inevitabile della logicizzazione di un oggetto a tutta prima estraneo alla logica.
Novecento filosofico e scientifico, a cura di A. Negri, Marzorati, Milano, 1991, vol. IV, pagg. 113-114
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