Scritto da Dott.ssa Paola Moscuzza
Innocue sberle e ingiunzioni a fini educativi o ripetuti atti violenti ben lontani dal trasmettere valori e formare un individuo?
Chiamati a rispondere a tale quesito, i giudici della Corte Suprema, aditi dopo una sentenza d´Appello peraltro già motivata a sufficienza.
Il ricorrente in oggetto infatti, condannato in appello alla pena di due anni e tre mesi di reclusione per il reato di maltrattamenti in famiglia nei confronti della figlia minorenne, non deponeva le armi, fondando le sue difese sui seguenti motivi: la mancanza del requisito dell´abitualità della condotta; la mancanza di dolo, dato che il sottoporre la figlia a tale sofferenza aveva in realtà la finalità di educare, e che tale atteggiamento sarebbe scaturito dalla tipica preoccupazione che, affliggendo un genitore, lo spinge in qualche modo ad assumere un atteggiamento severo; e in ultimo la mancata assunzione di una prova decisiva.
Nessun dubbio sulla presenza dell´abitualità della condotta, appurato che la minore subiva ripetuti maltrattamenti, consistiti in ingiurie e violenze fisiche, da oltre un anno. Ciò integra perfettamente il reato di maltrattamenti (art. 572 del codice penale) , benchè la condotta sia stata posta in essere per un periodo di tempo limitato, e con il cosiddetto "animus corrigendi", vale a dire con l´intenzione di correggere ed educare.
Disconfermata la mancanza di dolo del soggetto agente, e precisamente quello generico, consistente nella coscienza e volontà di sottoporre la vittima ad una abituale condizione di soggezione psicologica e di sofferenza, e ritenendosi il confronto con la persona offesa e la perizia psicologica, delle prove indiscutibilmente decisive, la Cassazione, con sentenza n 9154 del 14/02/2017, dichiarava inammissibile in ricorso e condannava il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Paola Moscuzza, autrice di questo articolo, si è laureata in Giurisprudenza presso l´Università degli studi di Messina nell´anno 2015.