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Il diritto del minore alla vita familiare: quale il limite?

Moscuzza

 

Scritto da Dott.ssa Paola Moscuzza
 
Il presupposto del diritto del minore a crescere nella famiglia d´origine, è che il contesto familiare non gli rechi pregiudizio. L´atto con cui l´Autorità Giudiziaria dispone di allontanare dal suo nucleo familiare il minore, è uno strumento di protezione nel caso in cui la salute psico-fisica del bambino sia a rischio.
Facendo leva su questo principio, con sentenza n 6665 15/03/2017, la Suprema Corte ha respinto il ricorso di due genitori che, una volta scarcerati, reclamavano il loro diritto alla potestà genitoriale e la revoca dello stato di adottabilità delle figlie.
La dichiarazione di abbandono pronunciata dal Tribunale per i minorenni di Palermo, seguiva difatti non solo alla situazione in cui versavano le minori al momento dell´arresto dei genitori (per istigazione e favoreggiamento alla prostituzione), ma anche ai resoconti degli operatori della casa famiglia presso cui le stesse erano state affidate con divieto di prelevamento e visita.
Alla luce di queste acquisizioni, il Tribunale privava i genitori della potestà genitoriale e negava alla zia ( la quale offriva modalità di accudimento poco convincenti se non inesistenti e peraltro mai menzionata dalle nipoti), la richiesta di visita.
Padre, madre e la zia, adivano successivamente la Corte d´Appello, la quale respingeva la richiesta sulla base dell´argine posto al principio secondo cui il minore ha diritto a che la sua educazione venga espletata nella sua famiglia d´origine, che consiste nell´incapacità della famiglia di mantenere, istruire ed educare la prole (requisiti nel caso di specie, difficilmente riscontrabili, considerati gli episodi di violenza e abusi, nonché il totale disinteresse mostrato degli appellanti durante la permanenza in carcere).
Insistendo ulteriormente, sia la madre che il padre (e non anche la zia), adivano la Cassazione, chiedendo la revoca della dichiarazione dello stato di abbandono, a detta dei quali, non accertata a dovere. Tale dichiarazione, a loro avviso, poggiava su una presunzione di inaffidabilità in capo agli stessi e non piuttosto su una dimostrata compromissione della crescita delle figlie. Lamentavano inoltre l´aver trascurato da parte del giudice, la disponibilità dimostrata dalla zia.
Sui due punti la Suprema Corte statuiva così argomentando: il pregiudizio psico-fisico che alle figlie sarebbe derivato in un ambiente familiare di tal sorta, è pacifico e peraltro confermato dalle condizioni delle stesse al momento del ricovero in casa famiglia e nel periodo successivo (così come confermato dagli operatori della struttura).
Quanto alla posizione della zia, sorella della madre, il non aver proposto ricorso in Cassazione, ha avvalorato la già indiscussa inaffidabilità e disinteresse della stessa verso le nipoti.
Così la Corte respingeva il ricorso dichiarandolo inammissibile.
 
 
Paola Moscuzza, autrice di questo articolo, si è laureata in Giurisprudenza presso l´Università degli studi di Messina nell´anno 2015
 

 

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