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Una pena senza la «speranza» del reinserimento «non serve» e la persona esce di prigione «peggio di quello che è entrata»: lo ha detto il Papa ricevendo «l'altra metà» del carcere romano di Regina Coeli – agenti di polizia penitenziaria, personale amministrativo, medici, educatori, cappellani e volontari, accompagnati dai familiari. Persone impegnate nel «faticoso e delicato lavoro» di «curare le ferite» di chi ha sbagliato che, ha voluto notare Francesco, «a causa della carenza di personale e del cronico sovraffollamento» rischia di essere vanificato.«Nessuno può condannare l'altro per gli errori che ha commesso, né tanto meno infliggere sofferenze offendendo la dignità umana», ha detto il Papa. «Le carceri hanno bisogno di essere sempre più umanizzate, ed è doloroso invece sentire che tante volte sono considerate come luoghi di violenza e di illegalità, dove imperversano le cattiverie umane. Allo stesso tempo – ha proseguito – non dobbiamo dimenticare che molti detenuti sono povera gente, non hanno riferimenti, non hanno sicurezze, non hanno famiglia, non hanno mezzi per difendere i propri diritti, sono emarginati e abbandonati al loro destino. Per la società i detenuti sono individui scomodi, sono uno scarto, un peso. È doloroso questo, ma l'inconscio collettivo ci porta lì. Ma l'esperienza dimostra che il carcere, con l'aiuto degli operatori penitenziari, può diventare veramente un luogo di riscatto, di risurrezione e di cambiamento di vita; e tutto ciò è possibile attraverso percorsi di fede, di lavoro e di formazione professionale, ma soprattutto di vicinanza spirituale e di compassione, sull'esempio del buon Samaritano, che si è chinato a curare il fratello ferito».
Questo atteggiamento di prossimità, che trova la sua radice nell'amore di Cristo, può favorire in molti detenuti la fiducia, la consapevolezza e la certezza di essere amati», ha aggiunto Francesco, che ha poi voluto rimarcare come «ogni pena non può essere chiusa: sempre deve avere la finestra aperta per la speranza, sia il carcere sia ogni persona, ognuno deve avere sempre la speranza del reinserimento, anche una speranza di reinserimento parziale, pensiamo agli ergastolani e al lavoro in carcere. Una pena senza speranza – ha scandito Jorge Mario Bergoglio – non serve, non aiuta, provoca nel cuore sentimenti di odio, tante volte di vendetta, e la persona esce peggio di quello che è entrata. Bisogna, sempre alimentare la speranza e aiutare a vedere al di là della finestra, sperando nel reinserimento. Il Papa ha poi fatto una riflessione che ha spesso raccontato nel corso delle sue visite alle carceri: «Io ho tanta vicinanza ai carcerati e alle persone che lavorano nel carcere» e ora «ogni 15 giorni le domeniche faccio una telefonata ad un gruppo di detenuti in un carcere che visitavo con frequenza» a Buenos Aires: «Sempre ho avuto sensazione, quando entravo nel carcere, "perché loro e non io?". Una domanda che mi ha fatto tanto bene, "perché loro e non io?", io avrei potuto essere lì perfettamente, e il Signore mi ha dato una grazia che i miei peccati, le mie mancanze siano state perdonate, non viste, non so… ma quella domanda mi ha aiutato tanto, "perché loro e non io?"». Papa Francesco ha espresso «la riconoscenza mia e della Chiesa per il vostro lavoro accanto ai reclusi: esso richiede fortezza interiore, perseveranza, consapevolezza della specifica missione alla quale siete chiamati» e «preghiera, tutti i giorni, perché il Signore vi dia il buon senso nella diverse situazioni», ha detto il Pontefice, sottolineando che «il carcere è luogo di pena nel duplice senso di punizione e di sofferenza, e ha molto bisogno di attenzione e di umanità.
È un luogo dove tutti, Polizia Penitenziaria, Cappellani, Educatori e Volontari, sono chiamati al difficile compito di curare le ferite di coloro che, per errori fatti, si trovano privati della loro libertà personale. È noto che una buona collaborazione tra i diversi servizi nel carcere svolge un'azione di grande sostegno per la rieducazione dei detenuti». «Tuttavia – ha sottolineato Bergoglio – a causa della carenza di personale e del cronico sovraffollamento, il faticoso e delicato lavoro rischia di essere in parte vanificato. Lo stress lavorativo determinato dai turni pressanti e spesso la lontananza dalle famiglie sono fattori che appesantiscono un lavoro che già di per sé comporta una certa fatica psicologica». All'udienza, ha spiegato il direttore del carcere, Silvana Sergi, ha partecipato «l'altra metà di Regina Coeli: i nostri cari, le nostre famiglie, il nostro mondo», che «nel quotidiano non si vedono ma ci sono sempre», e «grazie al loro incondizionato amore riusciamo a illuminare la strada a coloro che hanno incontrato momenti di buio». Padre Vittorio Trani, lo storico cappellano del penitenziario di via della Lungara, ha ringraziato da parte sua il Santo Padre per l'attenzione che«rivolge al carcere, ai carcerati e a chi vive in quel mondo», ed ha poi chiesto al Papa di benedire il suo sacerdozio: «Tra pochi giorni – ha detto – farò 50 anni di messa, di questi 40 li ho passati a Regina Coeli: sono soggetto poco raccomandabile! E chiedo che lei benedica il mio sacerdozio perché possa essere in questa missione così delicata persona che sappia dare».
Ragusa, 26 febbraio 2019
Il Capo Area Trattamentale della Casa Circondariale di Ragusa
Rosetta Noto
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