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David Hume, figlio dell'avvocato Joseph Home di Chirnside e di Katherine Falconer, figlia del presidente del collegio di giustizia, nacque terzogenito in un palazzo sul lato nord del Lawnmarket a Edimburgo. Pur se di origini nobili la sua famiglia non era molto ricca, e a lui venne affidata una porzione esigua del loro patrimonio. Modificò il suo cognome da Home a Hume nel 1734, per mantenere meglio la pronuncia scozzese anche in Inghilterra.
Hume frequentò dal 1721 l'Università di Edimburgo. Sebbene inizialmente avesse preso in considerazione una carriera nell'ambito della giurisprudenza come auspicato dai suoi genitori, si ritrovò ad avere, secondo le sue parole, «un'insormontabile avversione a ogni cosa fuorché alle ricerche della Filosofia e della Cultura generale». Decise quindi di coltivare studi classici. Nutrì scarso rispetto per i professori ed era molto insoddisfatto delle dottrine filosofiche del suo tempo, nel 1735 diceva a un amico: «da un professore non c'è da imparare nulla che non si possa trovare nei libri».
Hume fece una scoperta filosofica che gli aprì «... un nuovo contesto del pensiero», che lo ispirò «... a rigettare ogni altro piacere o affare per applicarsi completamente ad esso». Il filosofo non rivelò cosa fosse questo "contesto" e i commentatori hanno proposto una serie di congetture al riguardo. A causa di questa ispirazione, Hume si avviò a dedicare almeno dieci anni a leggere e a scrivere.
I suoi debutti come avvocato a Bristol non andarono a buon fine e ben presto scelse di trasferirsi in Francia, a La Flèche, dove restò tre anni, dal 1734 al 1737, e dove scrisse la sua opera più importante, il Trattato sulla natura umana, che verrà pubblicato dopo il suo ritorno a Londra, ma senza successo.
Ritornato in Inghilterra, pubblicò nel 1742 la prima parte dei suoi Saggi morali e politici. Quest'opera ricevette un'accoglienza più favorevole sia tra il pubblico sia tra gli intellettuali, ma non fu sufficiente per ottenere una cattedra di filosofia presso l'università di Edimburgo e nemmeno presso quella di Glasgow: probabilmente la sua nomea di ateo e la strenua opposizione del suo più forte critico Thomas Reid furono all'origine di questa mancata nomina. Ritornò quindi sul continente e, tra il 1745 e 1748, ottenne vari incarichi politici, recandosi fra l'altro alle corti di Vienna e Torino.
Nel 1748 pubblicò a Londra la Ricerca sull'intelletto umano. Nel 1752 ebbe un posto di bibliotecario alla facoltà di diritto di Edimburgo, impiego che gli lasciò molto tempo a disposizione per riflettere, indagare e scrivere: sono di questi anni la Storia d'Inghilterra, da Giulio Cesare fino all'ascesa di Enrico VII, e la Ricerca sui princìpi della morale. Nel 1757 pubblicò la Storia naturale della religione; un altro scritto su questo stesso tema, per molti il suo capolavoro stilistico, è Dialoghi sulla religione naturale, pubblicato postumo nel 1779. In quest'ultima opera, scritta tra il 1749 e il 1751, pone sotto accusa tutte quelle teorie che giustificano l'esistenza di Dio.
Nel 1763 divenne segretario dell'ambasciatore d'Inghilterra a Parigi, città nella quale rimase fino al 1766. Qui ebbe l'opportunità di frequentare gli ambienti illuministi e conoscere il filosofo Jean-Jacques Rousseau, nonché essere ospite del barone Paul Henri Thiry d'Holbach all'epoca impegnato nella sua accanita battaglia antireligiosa. Tornato in Inghilterra, decise di ospitare Rousseau, frequentazione che però finì con una clamorosa rottura per incompatibilità di carattere e per il patologico delirio di persecuzione da cui era afflitto l'autore dell'Emilio. Oramai ricco, terminò la sua esistenza a Edimburgo il 25 agosto 1776, morendo per un tumore intestinale.
La filosofia di Hume è spesso definita come uno scetticismo radicale dal punto di vista teorico e moderato dal punto di vista pratico. Il suo pensiero può inoltre essere inscritto all'interno del naturalismo. Gli studi su Hume hanno spesso oscillato nel dare più importanza alla componente scettica (evidenziata dai positivisti logici) e coloro che hanno dato risalto al lato naturalista. Quel che è certo è che ebbe una decisiva influenza sullo sviluppo della scienza e della filosofia moderna.
Il suo pensiero nato sotto la luce delle correnti illuministiche del XVIII secolo, mirava a realizzare una "scienza della natura umana", dotata di quella stessa certezza e organizzazione matematica che Newton aveva utilizzato per la fisica, in cui compie un'analisi sistematica delle varie dimensioni della natura umana, considerata la base delle altre scienze. Con Hume la revisione critica dei sistemi di idee della tradizione giunge ad una svolta radicale. Egli delinea un "modello empirista di conoscenza" che si rivelerà critico verso l'illuministica fede nella ragione. Ne discende che Hume sia oggi considerato uno dei più importanti teorici del liberalismo moderno.
Ci sono, per Hume, due tipi di filosofia, una facile e ovvia, l'altra difficile e astrusa. Quella ovvia è esortativa, precettista, consolatoria e alla fine risulta fin troppo banale, l'altra è astratta, decisamente inservibile per la vita, perché orientata all'esaltazione di dispute interminabili; e spesso scade in una forma di "malattia metafisica" o sapere astratto perché pretende di conoscere l'inconoscibile. Hume raccomanda di superare ambedue queste forme del filosofare. Appare a lui evidente, come in una forma di intuizione, la possibilità di una "nuova strada" del sapere: fondare una "scienza esatta della natura umana".
La straordinaria intuizione lo sprona a scrivere la sua opera principale Trattato sulla natura umana con il significativo sottotitolo Un tentativo di introdurre il metodo sperimentale di ragionamento negli argomenti morali. È evidente che Hume è seguace di quel sapere baconiano inglese a cui si erano ispirati Locke e Newton e che non era stato del tutto estraneo alle grandi rivoluzioni politiche ed economiche che l'Inghilterra stava attuando. Bisogna che il metodo sperimentale non si adoperi solo per studiare i cieli o la realtà fisica, ma serva per comprendere meglio l'essere umano e la sua natura. Si amplia così quel gruppo di giovani inglesi che ormai credono ad "una nuova filosofia" (Locke, Shaftesbury, Mandeville, Hutcheson, lo stesso Berkeley), che, pur nella diversità di impostazione, vogliono fondare il loro sapere sull'esperienza e non sulle idee innate (aprioristiche deduzioni cartesiane). Tutto lo studio dell'uomo dovrà partire dall'osservazione concreta della sua natura, dall'analisi del sentimento più che della ragione e anche le valutazioni morali dovranno essere fondate su motivazioni naturalistiche più che su astratte idealità giusnaturaliste o religiose. Hume è in disaccordo dunque, con alcune teorie di Locke.
Il contrasto ragione-passioni e la superiorità della ragione sulle passioni sono due elementi comuni a tutta la storia della filosofia. Secondo Hume, invece, il contrasto ragione-passioni non esiste, perché la ragione non è in grado né di influenzare né di ostacolare le passioni: "la ragione è, e può solo essere, schiava delle passioni".
D. Hume, Trattato sulla natura umana, Libro secondo, Parte terza, Sez. terza
Non c'è nulla di più comune in filosofia, e anche nella vita quotidiana, che parlare del conflitto tra passione e ragione per dare la palma alla ragione, e per affermare che gli uomini sono virtuosi solo nella misura in cui obbediscono ai suoi comandi. Si sostiene che ogni creatura razionale ha l'obbligo di regolare le proprie azioni secondo i dettami della ragione, e che nel caso in cui ci sia qualche altro motivo o principio che pretenda di determinare la sua condotta, deve opporsi a esso finché non sia completamente domato o almeno conciliato con quel principio superiore. La maggior parte della filosofia morale, antica e moderna, sembra fondarsi su questo modo di pensare; e non c'è nulla che offra maggior spazio sia alle disquisizioni metafisiche, come alle declamazioni popolari, quanto questa presunta superiorità della ragione sulla passione. Si sono poste nella miglior luce l'eternità, l'invariabilità e l'origine divina della prima; mentre si è continuamente insistito sulla cecità, incostanza e falsità della seconda. Per dimostrare come tutta questa filosofia sia erronea, cercherò di dimostrare in primo luogo che la ragione, da sola, non può mai essere motivo di una qualsiasi azione della volontà; e in secondo luogo che la ragione non può mai contrapporsi alla passione nella guida della volontà.
[...] Ma se la ragione non ha questa influenza originaria è impossibile che possa ostacolare un principio che invece possiede tale capacità, o che riesca a fare esitare la nostra mente sia pure per un attimo. Risulta quindi chiaro che il principio che si contrappone alla passione non può coincidere con la ragione e solo impropriamente lo si chiama così. Non parliamo né con rigore né filosoficamente quando parliamo di una lotta tra la passione e la ragione. La ragione è, e può solo essere, schiava delle passioni e non può rivendicare in nessun caso una funzione diversa da quella di servire e obbedire a esse.
(D. Hume, Opere, Laterza, Bari, 1971, vol. I, pagg. 433-436)
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