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Gli atti di bullismo a danno di alunno integrano reato di stalking

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I giudici della Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 28623 dell´8 giugno 2017, hanno stabilito che gli atti ripetuti di bullismo a danno di un compagno di scuola, costituiscono condotta rilevante ai fini dell´integrazione del reato di stalking.

Prima di illustrare il caso di specie è bene ricordare che il reato di stalking è stato introdotto nel nostro ordinamento solo di recente con la legge 23 aprile 2009 n. 38 che ha introdotto all´art. 612 bis c.p. il reato di "atti persecutori".
 
La fattispecie incriminatrice punisce " Salvo che il fatto costituisca più grave reato", con la reclusione da sei mesi a cinque anni la condotta di chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l´incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita. Il comma 2 prevede che la pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici. Il successivo comma 3 prevede poi un aumento della pena fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità di cui all´articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero con armi o da persona travisata. Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. La remissione della querela può essere soltanto processuale. La querela è comunque irrevocabile se il fatto è stato commesso mediante minacce reiterate nei modi di cui all´articolo 612, secondo comma c.p. Si procede tuttavia d´ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità di cui all´articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d´ufficio."
Avverso la sentenza della Corte di Appello che aveva confermato la sentenza di condanna di primo grado emessa dal competente Tribunale nei confronti di alcuni minorenni chiamati a rispondere del reato p.p. dall´art. 612 bis c.p., veniva proposto ricorso in Cassazione dalla difesa degli imputati. Secondo la tesi difensiva dei ricorrenti la sentenza impugnata presentava diversi vizi di legittimità, tra questi si deduceva che la sentenza presentava diversi vizi motivazionali in quanto aveva affermato la responsabilità degli imputati basandosi esclusivamente sulle affermazioni della vittima. Col terzo motivo il ricorrente riteneva non sussistente l´elemento oggettivo e soggettivo del reato per mancata dimostrazione della serialità delle condotte e del verificarsi dell´evento danno.
Tralasciando, in questa sede, gli altri motivi del ricorso, occorre evidenziare che gli atti di bullismo, che in astratto in base a come in concreto vengono posti in essere, possono di volta in volta integrare singole figure di reato (minacce, molestie, ingiurie, percosse, violenza privata ecc..), in un´ottica seriale e verificatesi certe condizioni, possono configurare il reato di stalking.
Questo infatti hanno stabilito per la prima volta i giudici della Corte di Cassazione con la sentenza in commento.
Con riferimento alla presunta mancata dimostrazione della condotta fondata sulle sole dichiarazioni della parte offesa, la Corte richiamando la pronuncia delle SS.UU n. 41461 del 19.07.2012, ha ribadito il principio secondo cui le dichiarazioni della parte offesa " possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell´affermazione di penale responsabilità dell´imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell´attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve in tal caso essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone."
Mentre, con riferimento alla presunta mancata dimostrazione del verificarsi del danno in capo alla vittima del reato dedotta dai ricorrenti, i giudici della Quinta Sezione della Corte hanno affermato che"la prova della causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura, deve essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall´agente ed anche da quest´ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l´evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata (Sez. 6, n. 50746 del 14/10/2014, G, Rv. 261535).
 
Per le superiori argomentazioni e per gli altri motivi di cui in sentenza, la Corte ha dichiarato inammissibili i ricorsi proposti dalla difesa degli imputati
Si allega testo sentenza
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