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Giovanissimi caregiver, quel tesoro silenzioso nascosto tra i "numeri" anonimi delle nostre classi

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Il termine è ormai entrato nel lessico comune: caregiver, letteralmente "colui che si prende cura". Quando si parla di caregiver familiari di solito ci si riferisce a figure femminili: quell'esercito silenzioso di donne che si occupano della cura e dell'assistenza di un congiunto fragile perché disabile, ammalato o anziano. Ma poco o nulla sappiamo di un particolare tipo di caregiver tra le mura domestiche: quello giovane o giovanissimo. Eppure i bambini e ragazzi che assistono o aiutano in maniera continuativa un familiare adulto (sia un fratello, un genitore o un nonno) esistono, e la loro giovane vita risente di questa loro attività. Secondo i dati Istat 2015 in Italia ci sono 391mila ragazzi fra i 15 e i 24 anni che si prendono cura sistematicamente di un congiunto, con ripercussioni sul loro percorso scolastico, sul tempo libero, sulle scelte di vita. Fra loro ci sono anche bambini, adolescenti, ragazzi che non hanno ancora compiuto 18 anni ma forniscono cura, assistenza o sostegno a membri della propria famiglia affetti da malattie croniche, terminali, disabilità, dipendenze, patologie psichiatriche. Le stime internazionali raccontano che in ogni classe c'è almeno un ragazzino che, spesso in solitudine e in segreto, si prende cura di un familiare disabile o malato, con pesanti ripercussioni nell'ambito scolastico. E anche la scuola, per la prima volta, alza il velo su questa realtà attraverso un protocollo d'intesa siglato dal Miur con alcune organizzazioni attive nel settore per informare gli insegnanti e dare loro strumenti per identificare e supportare questi studenti.

 Il lavoro di caregiver può comportare un maggior rischio di depressione e ansia, forte senso di responsabilità che può diventare eccessivo e opprimere i ragazzi, ma anche difficoltà a conciliare i tempi di cura con quelli di studio e stanchezza per la perdita di sonno, con ripercussioni sul rendimento scolastico. Giovani che sono maggiormente a rischio di esclusione sociale, perché spesso costretti a rinunciare alle attività che di solito svolgono i loro coetanei, come gite, uscite, attività sportive. Per i più grandi, poi, al termine del percorso scolastico l'attività di cura può avere conseguenze importanti, ad esempio sulla decisione di frequentare l'università, di uscire di casa per cogliere un'opportunità di lavoro o costruirsi una propria famiglia.
Il fenomeno esiste, ma nel nostro Paese non riceve le attenzioni che dovrebbe. I servizi dedicati in generale ai giovani caregiver in Italia sono rari. Si tratta prevalentemente di progetti rivolti ai fratelli di persone disabili, finalizzati di solito alla promozione di gruppi di auto-mutuo aiuto, a creare occasioni di conciliazione e a informare sul tema del "dopo di noi". I baby careviger sentono il peso della responsabilità che grava su di loro e andrebbero maggiormente supportati. Si scontrano con l'assenza di supporto da servizi territoriali dedicati ma anche dalla propria cerchia di contatti: sono soli e ne avvertono il peso, vorrebbero un aiuto nella gestione delle proprie emozioni e dei rapporti con i coetanei. Hanno bisogno di informazioni e orientamento sui servizi disponibili, attività di svago per rilassarsi e divertirsi. 

 Essere un minore caregiver può significare essere soggetti a disagio emotivo, avere uno scarso rendimento a scuola, sentirsi in parte diversi dai coetanei e, non di rado, essere oggetto di bullismo. Sul fronte scolastico l'impegno familiare si traduce in frequenti assenze, ritardi, incapacità di concentrazione, difficoltà nel rispettare le scadenze di compiti e verifiche, problematiche relazionali, fino al vero e proprio abbandono scolastico. Dal lato lavorativo, invece, è frequente che questi ragazzi accettino impieghi vicino a casa e, non avendo molto tempo da dedicare alla ricerca di altre occupazioni, si accontentino di attività con qualifiche inferiori. Allo stesso tempo, questi ragazzi però si sentono più sensibili, più maturi e più sicuri di sé, anche grazie a questa loro particolare attività di "cura". La scuola, per prima, deve contribuire a renderli visibili facendo in modo che la loro voce sia ascoltata, soprattutto cercando di valorizzare le loro esperienze affinché da ostacolo si trasformino in valore aggiunto che possa aiutarli nel loro percorso verso l'età adulta.

Maria Di Benedetto, insegnante e vicaria Istituto Comprensivo Portella della Ginestra - Vittoria

 

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