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Garanzia per i vizi e onere della prova nel contratto di appalto

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Negli ultimi anni, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite, precisamente con la sentenza n. 11748/2019, ha risolto il contrasto giurisprudenziale formatosi circa il soggetto tenuto a provare l'esistenza dei vizi della cosa nel contratto di compravendita (venditore o compratore), ove l'acquirente intenda avvalersi in giudizio della garanzia prevista dall'art. 1490 c.c.
Analogo interrogativo si pone in materia di appalto, con riguardo alla garanzia per i vizi dell'opera disciplinata dagli artt.1667, 1668, 1669 c.c.

Scorrendo le pronunce della Cassazione sul tema indicato, si rileva, infatti, un contrasto di giurisprudenza, proprio come in materia di compravendita (prima della risoluzione ad opera delle Sezioni Unite).

Ci sono infatti sentenze che affermano che l'onere probatorio sia in capo al committente (ad esempio, Cass. n. 5250/2004 e n. 21269/2009) ed altre che affermano il contrario, trasponendo, alla materia in questione, il principio generale in tema di riparto dell'onere probatorio nella responsabilità contrattuale fissato dalla nota sentenza Cass. Sez. Un. n. 13533/2001.

Cass. n. 5250/2004 afferma: "incombe al committente l'onere probatorio in ordine alla sussistenza dei vizi dedotti a fondamento della domanda di risoluzione del contratto di appalto, mentre compete all'appaltatore addurre l'esistenza di eventuali cause che impediscano al committente di far valere il suo diritto";

Diversamente, Cass. n. 936/2010 si esprime nei seguenti termini: "In tema di inadempimento del contratto di appalto, le disposizioni speciali dettate dal legislatore attengono essenzialmente alla particolare disciplina della garanzia per le difformità ed i vizi dell'opera, assoggettata ai ristretti termini decadenziali di cui all'art. 1667 cod. civ., ma non derogano al principio generale che governa l'adempimento del contratto con prestazioni corrispettive, il quale comporta che l'appaltatore abbia l'onere di provare di aver esattamente adempiuto la propria obbligazione e, quindi, di aver eseguito l'opera conformemente al contratto e alle regole dell'arte".  

Del rilevato contrasto giurisprudenziale tratta la sentenza della Cassazione n. 19146/2013, la quale tuttavia, pur dando atto dei divergenti orientamenti, ritiene di non dover rimettere la questione alle Sezioni Unite poiché si tratterebbe di un contrasto solo apparente.
In questa sentenza, infatti, la Suprema Corte sottolinea la peculiarità della fattispecie oggetto della sentenza n. 936/2010, caratterizzata dal fatto che il collaudo dell'opera aveva avuto esito negativo, per cui l'opera non era mai stata accettata dal committente ex art. 1665 c.c. E' questa particolarità, secondo la Cassazione, a comportare l'onere dell'appaltatore di provare l'esattezza del proprio adempimento e a ritenere il contrasto di giurisprudenza solo apparente, sostenendo che "la diversità di soluzioni, apparentemente rinvenibili nelle massime riconducibili all'uno o all'altro indirizzo, sia in realtà il risultato, o la conseguenza, della diversa fase negoziale in cui la questione dell'onere probatorio fra le parti può venire in gioco".

La Cassazione, ripercorrendo il quadro normativo di cui agli artt. 1665 e 1667 c.c., in cui l'accettazione dell'opera ha conseguenze sullo stesso ambito della garanzia per le difformità e i vizi dell'opera, arriva ad individuare il momento dell'accettazione (anche tacita) dell'opera, come "spartiacque ai fini della distribuzione dell'onere della prova tra le parti". Questa la massima:
"In tema di garanzia per difformità e vizi nell'appalto, l'accettazione dell'opera segna il discrimine ai fini della distribuzione dell'onere della prova, nel senso che, fino a quando l'opera non sia stata espressamente o tacitamente accettata, al committente è sufficiente la mera allegazione dell'esistenza dei vizi, gravando sull'appaltatore l'onere di provare di aver eseguito l'opera conformemente al contratto e alle regole dell'arte, mentre, una volta che l'opera sia stata positivamente verificata, anche "per facta concludentia", spetta al committente, che l'ha accettata e che ne ha la disponibilità fisica e giuridica, dimostrare l'esistenza dei vizi e delle conseguenze dannose lamentate, giacché l'art. 1667 cod. civ. indica nel medesimo committente la parte gravata dall'onere della prova di tempestiva denuncia dei vizi ed essendo questo risultato ermeneutico in sintonia col principio della vicinanza al fatto oggetto di prova".

Il ragionamento che fa la Cassazione è il seguente: finché l'opera non sia, espressamente o tacitamente accettata, l'applicazione all'appalto del principio generale che governa l'adempimento del contratto con prestazioni corrispettive importa che, sorta contestazione sull'esattezza dell'adempimento dell'obbligazione (nel caso specifico, perché il collaudo aveva avuto esito negativo), al committente che faccia valere in giudizio la garanzia per i vizi dell'opera è sufficiente la mera allegazione dell'esistenza dei vizi, gravando sull'appaltatore, debitore della prestazione, l'onere di provare di aver eseguito l'opera conformemente al contratto e alle regole dell'arte. Invece, una volta verificata positivamente l'opera, anche per facta concludentia, è il committente che accetta e che ne ha la disponibilità fisica e giuridica a dover dimostrare l'esistenza dei vizi.
La Suprema Corte, dunque, fonda il proprio orientamento sul principio, riconducibile all'art. 24 Cost. ed al divieto di interpretare la legge in modo da rendere impossibile o troppo difficile l'esercizio dell'agire in giudizio, di vicinanza della prova.

La citata sentenza della Cassazione a Sezioni Unite n. 11748/2019 in materia di onere probatorio dei vizi nella compravendita, nella parte finale della motivazione, osserva che l'orientamento prescelto (che addossa all'acquirente l'onere di provare l'esistenza dei vizi) è armonico rispetto alle "analoghe soluzioni elaborate dalla giurisprudenza di legittimità in materia di prova dei vizi della cosa nel contratto di appalto e nel contratto di locazione" e, con riguardo al contratto di appalto, richiama proprio la sentenza n. 19146/2013 sopra esaminata, sembrando quindi dare per scontato che sia questo l'orientamento da seguire in materia di appalto. 

In conclusione, è il caso di osservare che, una volta assolto da parte del committente l'onere di provare l'esistenza dei difetti, sorge a carico dell'appaltatore l'onere di provare che la cattiva esecuzione dell'opera è stata determinata dall'impossibilità di un esatto adempimento della prestazione derivante da causa ad esso non imputabile. La colpa dell'appaltatore è infatti presunta, in aderenza alla regola generale di cui all'art. 1218 c.c.

 

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