La denuncia del dipendente su fatti accaduti in azienda, non causa il licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, a condizione che la denuncia non sia calunniosa, vale a dire effettuata con la consapevolezza del lavoratore della non veridicità di ciò che denuncia.
Lo afferma la sez. Lavoro della Cassazione con sentenza n. 17735/17, depositata l´8 luglio.
Un lavoratore agiva in giudizio davanti al Tribunale di Velletri contro la società datrice di lavoro, al fine di ottenere la dichiarazione di illegittimità del licenziamento disciplinare patito dopo una lettera di contestazione in cui veniva accusato di aver tenuto un comportamento diffamatorio nei confronti della stessa società, consistito nell´ aver sottoscritto un esposto alla Procura della Repubblica. Il fatto denunciato verteva sull´ aver, la società, ricorso a procedure di mobilità, nonostante la crescita economica, e così ponendo in essere una truffa ai danni dello stato.
La pronuncia di primo grado con cui veniva dichiarato illegittimo il licenziamento, reintegrato il ricorrente nel posto di lavoro e condannata la società al risarcimento del danno, veniva riformata in secondo grado con il rigetto dell´appello incidentale proposto dalla società, l´accoglimento del ricorso proposto dal lavoratore, e la condanna della società al pagamento delle retribuzioni maturate dalla data del recesso fino a quella della reintegra, oltre i contributi.
Tra la data dell´esposto e quella della lettera di contestazione, argomenta il giudice di secondo grado, era trascorso un periodo di quasi un anno, rilevando con ciò che difficilmente la denuncia avrebbe potuto avere incidenza sulle dinamiche aziendali, sia perché oggetto erano delle circostanze già discusse in azienda, sia perché il fine dell´esposto era puramente quello di controllare il largo ricorso agli ammortizzatori sociali, effettuato dalla società, e per di più, argomento già oggetto di dibattito pubblico. Il licenziamento, per i giudici del merito non si fondava su una giusta causa.
La società datrice di lavoro adiva la Cassazione, la quale, muovendo dall´ obbligo di fedeltà disciplinato all´art. 2015 del Codice Civile, da cui emerge il dovere in capo al prestatore di lavoro di usare lealtà e di guardarsi dal porre in essere comportamenti da cui conseguano situazioni di conflitto con gli interessi dell´impresa, o ledano il rapporto di fiducia che lo lega al datore di lavoro, confermava i confini del diritto di critica, asserendo che, se esercitato nei limiti della continenza sostanziale, vale a dire la corrispondenza dei fatti narrati a verità, e formale, ossìa correttezza e civiltà nell´ esposizione, non può dare luogo a giusta causa o giustificato motivo oggettivo di licenziamento.
Essenziale per la Corte, procedere al bilanciamento tra l´interesse leso, quello cioè della società denunciata, e quello relativo alla libera formazione del proprio pensiero.
È consentito al prestatore di lavoro criticare il proprio datore, purchè al fine di difendere la propria posizione, onorando la verità dei fatti, e con termini rispettosi del decoro del superiore gerarchico, nonché non pregiudizievoli per l´impresa.
Per le suesposte argomentazioni, il ricorso veniva respinto e la ricorrente condannata alle spese di giudizio.
Scritto da Dott.ssa Paola Moscuzza