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Tra tenerezze galeotte e fantasie perdute. Gli amori in Tribunale, storie di altri tempi

14 febbraio, San Valentino o dell´amore.
Lo celebriamo con una bellissima memoria - non di quelle memorie, naturalmente ma ma di memoria nel senso di ricordo - sull´amore tra le aule e corridoi di un grande tribunale, pubblicata nel sito dell´Ordine degli avvocati di Udine. Un amore che ha coinvolto avvocati e praticanti, segretarie e cancelliere. Un amore a volte momentaneo e a volte destinato all´eternità. Un amore i luoghi apparentemente lontani dalle emozioni. Apparentemente, però.
Da una parte o dall´altra, prima o poi, in qualche modo dovevamo per forza arrivarci: l´amore in tribunale.
"Siamo matti? L´amore in tribunale!" esclamerà qualcuno, stracciandosi le vesti. "Che cos´hanno in comune la logica giuridica, la severità della legge, la solenne ritualità del processo, la sacralità del luogo, con i sentimenti? Per non parlare dei processi, civili o penali che siano, in cui si manifestano gli interessi materiali, i risentimenti, i rancori, a volte l´avidità, spesso l´animosità dei contendenti!".
Beh, tanto per cominciare, se pensiamo che le cause si chiamano tecnicamente liti (per gli anglosassoni è uguale: "litigation"), una certa affinità con i sentimenti, specie quelli più intensi e vigorosi, balza agli occhi.
"Già, ma il luogo" si dirà "non è forse un tempio della ragione e della razionalità, in cui si celebrano i riti della Giustizia? Riti da cui dipende spesso, se non la vita eterna, certamente quella terrena di chi vi si accosta".
Certo che sì. Ma è altrettanto vero che non c´è luogo al mondo in cui il sentimento, l´amore, la passione, non riescano a penetrare. Anzi, più il loro ingresso viene osteggiato, ritenuto disdicevole, addirittura proibito, più la passione si fa un punto d´orgoglio di riuscire ad entrarvi, infrangendo e travolgendo ogni regola. Si pensi a quella che forse è la più rappresentata tra le commedie in friulano "Amôr in canoniche" di Bruno Paolo Pellarini. Neanche nella canonica, che è quasi un prolungamento – dato che vi abita il sacerdote – dello spazio sacro della chiesa, ci si stupisce che l´amore possa fare capolino.
Ed allora non c´è da stupirsi, o addirittura da scandalizzarsi, se tra il profumo (ora più dolce, ora più aspro, o acidulo, a seconda delle edizioni e delle annate) di codici e riviste di giurisprudenza, la passione e la tenerezza riescono a farsi strada. Diciamo "riuscivano", dato che – ossequienti alla "destinazione d´uso" della nostra rubrica – è del passato, soltanto del passato che parleremo. Tranquilli. Chi avesse cominciato ad estrarre il fazzoletto per asciugarsi la fronte, può riporlo.
Parliamo, intanto, degli amori regolari. Pochi. Pochi perché, fino agli anni ´70, la presenza di uno dei due sessi, il cui contributo è indispensabile, almeno nella maggioranza dei casi, affinché nasca un sentimento, era limitatissima. Tre, forse quattro erano le colleghe di sesso femminile che percorrevano i corridoi del Tribunale di Udine. Una vocazione naturale all´endogamia, poi, cioè al matrimonio all´interno della stessa tribù, portò alcune di loro a sposare, o a legarsi stabilmente, con dei colleghi. Ma eran poche, come dicevamo: troppo poche per rappresentare l´altra metà del cielo e popolare l´immaginario amoroso dei ben più numerosi colleghi maschi. Lo stesso dicasi per la categoria dei giudici, dato che il sesso femminile vi era allora pressoché inesistente. Un po´ meglio andava forse tra gli impiegati amministrativi – cancellieri, applicati di concetto e d´ordine – tra i quali si erano da un po´ di tempo affacciate anche le donne. Alcuni turbamenti, nati tra verbali di causa, volumi di sentenze e fogli di iscrizione a ruolo, ebbero modo di crescere nelle nostre cancellerie, fino a divenire legami stabili, con susseguenti matrimoni. Tutto sommato poca roba, però, almeno a quei tempi. E poco significativa, per quel che vogliamo dire a proposito degli amori di allora.
Allora – parliamo del periodo che arriva agli anni ´60 – era tutto diverso. Non l´amore, ché quello era uguale, come lo è sempre stato. Era diverso tutto il resto. Fino all´inizio degli anni ´60 l´Italia, al di là delle pur profonde divisioni politiche, aveva una sola cultura dominante, cosicché anche la morale era una sola, quella cristiana. Tutti conducevano la loro vita nell´alveo del rispetto di tradizioni millenarie, di regole, di rapporti familiari e di potere accettati senza discutere. Con i primi anni ´60 tutto cambia: si ribaltano i rapporti di produzione e comincia, nell´Italia non più agricola del boom economico, il vorticoso cambiamento che porterà alla società attuale. Ma fino ad allora...
Fino ad allora, anche il matrimonio civile era così raro, che in molti comuni non se ne celebrò uno fino a trent´anni fa. Per non dire delle convivenze di fatto, che oggi costituiscono una parte rilevante dei nuclei familiari, ma che allora erano rarissime e, quelle poche, oggetto di una generale esecrazione. Almeno in pubblico. Quel che più conta è che, fino al dicembre 1970, il divorzio non era previsto dalla legge italiana. Non sta a noi dire se fosse migliore quella società in cui, bene o male che fosse, tutto scorreva – almeno apparentemente – nel verso di sempre, né sta a noi giudicare se fosse più felice l´uomo inserito in una società in cui tutti erano naturaliter cristiani, o se il suo destino sia migliore nella società della responsabilità, dei destini individuali, della rottura con la tradizione, del diritto alla felicità.
Anche in quei tempi, tuttavia, che ora ci sembrano così lontani, in una società che ci appare così diversa dalla nostra, l´amore trovava comunque, come ha sempre trovato e, crediamo, sempre troverà, il modo per aprirsi una strada, un varco. O un passaggio segreto. O una scorciatoia. Non c´era il divorzio? No, certo. Ma mica era una novità: la possibilità di sciogliere il vincolo matrimoniale non esisteva da quasi un paio di millenni. Eppure, l´impossibilità giuridica non aveva mai impedito agli uomini ed alle donne di coltivare sentimenti e relazioni d´amore al di fuori delle regole dello Stato, che poi erano le stesse delle leggi canoniche. La differenza stava nel fatto che, a differenza di oggi, chi – coniugato – intratteneva un rapporto con chi non era il proprio coniuge, o anche chi – non coniugato – lo aveva con una persona sposata con un altro, era un fuori-legge, un adultero, punito dalle leggi dello Stato, oltre che da quelle della Chiesa. E chi conviveva senza essere sposato era, per la Chiesa, un pubblico peccatore. Per la società civile, un irregolare ed una fonte di "scandalo".
Erano gli anni in cui a Roma un giovane deputato, destinato a una luminosa carriera, si permetteva di dare uno schiaffo (o di fare, secondo alcuni, un rimprovero ad alta voce) ad una signora, solo perché gli appariva un po´ troppo scollata, seduta al ristorante col proprio legittimo marito. Tanto per rendere l´idea. Insomma, l´amore, specie se inteso come passione, con l´eccezione di quella coniugale, era visto come un potenziale pericolo per l´individuo e per la società, da contenere il più possibile, arginandolo entro i limiti, dapprima di un casto fidanzamento, poi di un matrimonio indissolubile. Ma la natura, si sa, travolge tutti gli argini, quanto viene compressa. E giù, allora, a cercarlo, ad immaginarlo, a sfiorarlo, ad assaggiarlo quel frutto, con voluttà incommensurabili, esaltate da sensi di colpa che avrebbero ammazzato un cavallo. Smanie ossessive e deliri incomprensibili per chi, più giovane, non sia vissuto in quella temperie.
Fu proprio quella repressione, secondo noi, la causa scatenante di un costante, inestinguibile, ossessivo interesse per le cose dell´amore, della passione, del sesso, che riempiva mente, occhi ed ogni altra utile parte del corpo di chi ebbe la ventura di vivere in quella temperie culturale.
Nessuno, più di chi fu giovane in quegli anni, sa quale devastante potenza si annidi in un reggicalze, in una scollatura, in un corpo evidenziato da un vestito aderente. Nessuno, peraltro, è mediamente più "normale" nel desiderio: come l´affamato che non cerca caviale, o altre raffinatezze, ma si avventa preferibilmente sul pane e salame, sul formaggio, sul piatto di pasta, da accompagnarsi con un bicchiere di vino rosso e robusto. Ma questa è un´altra storia.
Ed allora, cosa succedeva? Come nascevano, crescevano, riuscivano a vivere anche nei corridoi e nelle stanze del tribunale gli amori tra un maturo avvocato celibe e un´impiegata del tribunale, libera di stato, o meno, che fosse, tra una segretaria di uno studio ed un giovane avvocato che collaborava con il suo titolare, o con un altro professionista, tra un avvocato sposato e una collega, o un´impiegata, che non era sua moglie? Poco si sa, perché poco si diceva. E poco si capiva. La riservatezza e la discrezione avevano il loro fondamento in un´educazione orientata nel senso di celare con cura questi aspetti della vita. E trovavano un validissimo alleato nel timore sia dei rigori della legge, sia della pubblica riprovazione, sia infine, e soprattutto, degli effetti devastanti del pettegolezzo.
Diciamo che poco, o nulla, si sapeva – a differenza di oggi – dei particolari. Si indovinava, o si cercava di farlo. Nessuno riusciva, però, a vedere più di un´occhiata d´intesa. Nessuno riusciva a sentire, o a percepire, molto di più di un tono di voce un po´ diverso. Nessuno aveva la prova di ciò che si sospettava e di cui sottovoce molti parlavano "in confidenza", o "in segreto". Ed allora tutti giù ad immaginare, a raffigurarsi quei due in qualche alcova segreta, o in una stanza del tribunale dopo la chiusura, o in uno studio, dopo che l´ultimo cliente e l´ultimo collaboratore erano usciti.
Fantasie figlie non di fatti provati, ma di sensazioni, di sussurri, di teoremi e sillogismi, in cui molti consumavano il rito dell´aperitivo serale tra amici e colleghi. Quel tipo di rappresentazione corticale, con cui era cresciuto e si era sviluppato per molti, se non per tutti, il rapporto con la passione amorosa, rendeva devastanti le fantasie, non solamente di chi ne parlava, ma anche di chi quelle trasgressioni le viveva.
Proibito. Peccato. Addirittura reato. Ecco cos´era una passione, quando violava i principi dell´indissolubilità del matrimonio e della fedeltà coniugale. Insomma, il terreno più adatto per scatenare un irrefrenabile desiderio di infrangere quelle regole e per far scorrere fiumi di adrenalina, sia nella fase della conquista, sia quando si riusciva a consumare l´atto tanto agognato, sia nei momenti in cui si temeva di essere scoperti.
A questo punto – direbbe Michele Lubrano – la domanda sorge spontanea: "Era meglio allora, o è meglio oggi?". Nel senso: "E´ preferibile poter vivere liberamente un sentimento, un amore, una passione, sciogliendo eventuali vincoli che la impediscano, com´è ora? O forse era preferibile il proibito, il peccato, l´adulterio?". Come sempre, vi sono due scuole di pensiero. Chi preferisce la prima, in nome della libertà e del diritto a perseguire la felicità. E chi la pensa diversamente, ritenendo preferibile, se del caso, l´adulterio, il quale non infrange un legame consolidato, non turba la vita dell´altro coniuge (se non lo viene a sapere), non crea traumi ai figli (quando ce ne sono) e mantiene alta, fino allo spasimo, la tensione erotica con l´amante proibito e segreto. Non solo: per i secondi, evita di trasformare l´oggetto di tanta passione in un marito, o in una moglie regolari, trasformando nello stesso tempo una trasgressione in una specie di obbligo, un sentimento in una specie di dovere.
Fu proprio un avvocato friulano, Loris Fortuna, nella seconda metà del secolo scorso, l´artefice dell´introduzione nel nostro paese della legge del divorzio. Che poi non si chiama così, ma fa lo stesso: tanto, scioglimento del matrimonio civile, o cessazione degli effetti civili di quello concordatario, sono per la gente, comunque, il divorzio. Che cosa significò la possibilità per il cittadino di richiedere allo Stato di riconoscergli il diritto di sciogliere un vincolo giuridico che, fino ad allora, solo la morte poteva far cessare? Che cosa significò, non tanto e non solo sotto il profilo giuridico, ma sotto quello sociale e culturale? Che cosa significò, aggiungiamo, sotto quello del costume?
Finì un modo di vivere certi sentimenti, certi desideri, certe passioni. Alla proibizione, al peccato, al reato, alla trasgressione, si sostituì la liceità, la possibilità, la normalità di certi comportamenti. Ed il "frutto proibito", divenuto non più tale, cominciò ad essere consumato in quantità maggiori, ma anche, ed inevitabilmente, con minore voluttà.
Ecco perché, quindi, i sorrisi appena accennati tra un avvocato che non si sposò mai ed una signora addetta a ricevere gli atti da notificare, ci appaiono ancora nella memoria così teneri e allo stesso tempo intensi e suscitatori di fantasie proibite. Ecco perché l´avvenenza di certe "semestrali", che passavano come meteore negli uffici del Tribunale e delle Preture, creava tanto scompiglio tra maturi cancellieri, giovani avvocati e severi magistrati. Ecco perché il trattenersi di qualche impiegata in ufficio oltre il normale orario di lavoro, scatenava la morbosa curiosità ed il sospetto tra gli altri impiegati. Sospetto non sempre infondato, o quanto meno non arbitrario, specie se oltre l´orario si tratteneva anche un giudice, o un pretore, o forse un cancelliere. Che poi magari venivano avvistati con la medesima in un ristorante a Venezia, o in un luogo ancor più lontano, confermando, al di là di ogni ragionevole dubbio, i sospetti più pesanti e le fantasie più indiscrete.
Tutto era diverso, dicevamo. Tutto è cambiato, da allora, nella società, così come, ovviamente, nel nostro mondo. Tutto è più facile, semplice, veloce, privo di rischi. Gli amori nascono come allora tra le mura del tribunale e degli studi d´avvocato ma, proprio perché hanno vita più facile, finiscono anche per tramontare più in fretta. Solo ciò che si è conquistato, difeso, protetto con fatica, vissuto con sofferenza, goduto con l´ansia che all´improvviso ci venga sottratto, acquista un valore vero e profondo. "Sono gli amori impossibili che durano per sempre" dice la nonna del protagonista di "Mine vaganti".
Già: solo gli amori impossibili, o quelli che hanno dovuto far fatica a nascere, a vivere e, spesso, anche a morire, lasciano un segno profondo in chi li ha vissuti ed in chi ne ha ammirato la capacità di resistere. Sono quegli amori che costituiscono – da che mondo è mondo – la principale fonte d´ispirazione delle opere letterarie e dell´arte in generale.
Chissà dove saranno ora i protagonisti – che non abbiamo nominato, soltanto evocato – di quelle storie d´amore e di peccato, di passione e di tenerezza, di infinita gioia e di disperata tristezza? Dovunque si trovino, speriamo abbiano ricevuto un trattamento compassionevole da Chi pesa le anime. E possano finalmente vivere liberamente un amore nato nella sofferenza e pagato con il prezzo della clandestinità.
A loro, ed a noi, questi versi tratti da una canzone di Charles Trenet, nella traduzione di Franco Battiato. A loro per salutarli, a noi per farci capire come, in fondo, gli assomigliamo.
"Di voi che resta antichi amori
giorni di festa teneri ardori
solo una mesta
foto ingiallita fra le mie dita.
Di voi che resta sguardi innocenti
lacrime e risa e giuramenti
solo sepolto in un cassetto qualche biglietto.
Di voi che resta antichi amori
grandi segreti complici cuori
solo nel petto male guarita una ferita.
Di voi che resta parole audaci carezze caste timide braci
solo una cenere che più non fuma ma si consuma.
Chiari di luna dolci sentieri e tu perduta anima di ieri
perché sparisti chi ti rubò dimmelo un po´.
Solo un motivo risento ancora d´un fuggitivo disco d´allora
e a un luogo penso dove non so se tornerò".
Nino Orlandi
Ordine Avvocati Udine
ANTICHI AMORI
8 aprile 2014

 

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