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Dante Troisi e il suo "Diario di un giudice", inno all'umanità della Giustizia

Dante Troisi e il suo "Diario di un giudice", inno all'umanità della Giustizia

Dante Troisi (Tufo (Avellino) 1920 - Roma 1989), magistrato e scrittore, collaboratore di quotidiani e riviste.In magistratura dal 1947, fu giudice per molti anni al Tribunale di Cassino e poi a quello di Roma, fino alle dimissioni nel 1974. Autore di numerose  opere di narrativa, romanzi e racconti, tra cui L'ulivo nella sabbia, Macchia, Roma 1951; Diario di un giudice, Einaudi, Torino 1955 ; I bianchi e i neri, Laterza, Bari 1965, tra i vincitori delle dizione 1965 del premio "Super Campiello".

da: Diario di un giudice, Einaudi, Torino 1955.

La settimana scorsa

Capitano avvocati che sono stati magistrati e poi hanno sostituita la nostra toga con l`altra. Si riconoscono, quasi infallibilmente, da alcuni segni che li distinguono dai nuovi colleghi. Non alzano la voce, non ricorrono a citazioni, parlano poco e le arringhe hanno lo stesso svolgimento delle sentenze: un breve riassunto del fatto e quindi l'esposizione di diritto. L'abitudine più o meno lunga alla nostra parte s'intuisce dall'abilità di mescolare quelle che nel gergo comune si dicono le risultanze processuali, in modo che le richieste sembrino un dispositivo che a noi non resta che accettare. Spesso essi stessi rivelano la loro ex appartenenza all'ordine giudiziario: vi accennano con accorto rimpianto, misurato orgoglio, sperimentata consapevolezza della delicata funzione che "andiamo a esercitare" sui loro clienti. E allora ci nasce il sospetto dell'ironia, della malizia, il dubbio di un ricatto: è la permanenza nel nostro campo che suggerisce i gesti, il tono, la scelta degli argomenti con il calcolato proposito di ricordarci che sanno tutto di noi e, se vogliono, possono tradirci. A incontrarli fuori dell'udienza, nei corridoi, negli uffici, è ancora più evidente tra noi il miscuglio di diffidenza, invidia, rimpianto, con un sottile magari inconscio filo di complicità. Come in un incontro tra fedeli ed ex fedeli di qualunque parrocchia. La ragazza (il petto piatto, una collana intorno al collo tozzo) racconta che lui con una mano le chiuse la bocca mentre con l'altra le alzava le vesti. Il presidente richiama l'imputato. L'imputato esce dal recinto, si arresta dietro la ragazza. - Vieni più avanti, - gli dice il presidente. Il giovane sale sulla pedana; le maniche della giubba molto corte gli allungano enormemente le mani che ora stringono i calzoni. - È falso, - dice fissando la parete dietro di noi. - Guardala in faccia, - gli comanda il presidente. Il giovane si gira, la ragazza s'è già preparata ad essere guardata. E subito gli grida: - Così hai fatto. - È falso, piglia giuramento. - Ho pigliato giuramento, ma giuro cento volte, - e butta basi al crocefisso. - E io giuro duecentovolte che è falso, - afferma il giovane e costretto per la fretta a riassumere il segno di croce, ripetutamente si tocca la fronte e il petto villoso mal coperto da una camicia colorata. - Mille volte giuro io,- urla la ragazza. - Io duemila volte, - dice con calma l'imputato. - Centomila volte giuro io, - strepita la ragazza, le labbra impiastrieciate di rossetto e si piega per inginocchiarsi. Gli avvocati controllano i piedi dei due protagonisti, perché pare che nel paese di costoro basti sollevare un piede e mantenersi ritti sull'altro per giurare impunemente il falso. Ma entrambi li tengono saldamente sulla pedana.


 Il giudice Sara mi dà sempre la destra sebbene io sia avanti di soli tre posti nella graduatoria dell'anzianità nel mestiere. Chissà come e esigente con quelli che vengono dopo di lui. Ho otto anni di mestiere: in media due udienze penali alla settimana, almeno cinque processi per udienza, son quaranta processi al mese, in otto anni sono tremilaottocentoquaranta e se calcolo due imputati per processo sono circa ottomila persone. E poi altre migliaia nei processi civili.                                                         

Rinuncio a calcolare quanti anni di carcere ho contribuito a dare. Il pianto di un imputato arrivato tardi. È un uomo di media età, magro, pallido; la sua causa è stata già decisa; il cancelliere gli dice della condanna e scoppia in lacrime. Qualcuno dubita che così egli spera di essere giudicato di nuovo.

La madre di un imputato ha chiesto all'avvocato se è possibile vincere la causa "con uno sforzo di moneta". Chissà dove pensa di prendere il denaro per corrompere i giudici: veste di stracci.           

Un detenuto offre le mani al carabiniere di scorta che lo libera dalle manette. Poi si strofina i polsi, li rifà propri con le dita che lentamente cancellano i segni. Di nuovo il vento, stasera. Le raffiche mi inchiodano sull'ingresso del tribunale, scompigliano il buio. Attendo che scendano gli altri giudici; li ho salutati, troverò un pretesto per attraversare insieme lo spiazzo. Questo spiazzo cosparso di ruderi è popolato dalla gente di C. che un tempo era viva e da coloro che son venuti sino a oggi a rispondere alla giustizia o che alla giustizia hanno chiesto aiuto. Si confondono agli abitanti non sopravvissuti, perché in qualche modo pure essi non sono scampati e dove vivono son diversi da come vennero, morti in qualche parte di loro. E tutti trovano voce nel vento. Assistito alla cerimonia della firma del sostituto procuratore su un mucchietto di certificati. In fondo a ognuno c'è stampigliata la sua qualifica e il nome e cognome; poco più sotto egli sfrega la penna, poi facendo leva sull'avambraccio, solleva la mano, l'usciere tira via il foglio, la riabbassa, traccia un altro segno, la rialza e cosi per molti minuti. La firma è solo uno sgorbio indecifrabile, tuttavia e la sua firma e tale sara per il resto della sua carriera, Ma all'inizio certo la scriveva lentamente, chiara, precisa, titubando; avrà influito a riassumerla non tanto la fretta quanto l'acquisíta coscienza dell'importanza della sua funzione. Apponendo la firma in quel modo egli manifesta sicurezza nel possesso dell'autorità conferitagli insieme ne reclama il pacifico, indiscutibile riconoscimento dagli estranei.

La magistratura e ancora tabù: i giudici debbono essere considerati gli intangibili ministri della divinità e soltanto a membri dello stesso ordine è permesso, con le cautele necessarie perché la voce non giunga all'esterno, muovere non dico critiche, ma esprimere sommessi pareri. Ma da questa comune  sudditanza, da questo fare testuggine contro il mondo di fuori non nascono legami altrettanto forti nell'interno della classe. Dentro siamo isolati. Non v'e speranza che gli altri aiutino o siano clementi con uno di noi che sbaglia. Ed e logico: c'è il rischio di sentirsi addossata la stessa colpa e sarà stata inutile quella retorica difesa della dignità, del decoro e simili attributi: astrazioni che unitamente alle smodate ambizioni di carriera svuotano di umanità la funzione. Si dovrebbe imporre ai giudici di osservare nell'aula di udienza quanto accade mentre gli altri giudici sono in camera di consiglio. Almeno una volta al mese, mescolarsi alla folla dietro la transenna, guardare gli imputati, quando suona il campanello che annuncia il ritorno del collegio per la lettura del dispositivo della sentenza. Non dimenticheranno gli occhi sul crocefisso O sul difensore che pare possa ancora aiutarli, la mano sulla spalla della madre o della sposa, l'espressione di fiducia, di rimorso, la silenziosa promessa di ravvedimento.

 Un tempo non ero così. Ricordo dodici anni fa, la città di P. in attesa di partire per l'Africa e Gen viene a dirmi che è incinta. Anche a P. vi erano colline che chiamavano e ove desideravo andare, mentre ella parlava giocando col nastro della paglia.
Dissi: - Ti sposo.
E lei:-~ Non puoi, devi partire.
- Non importa; prendi gli assegni e se succede, la pensione.
E lei: - No, meglio no.
- Non sei incinta.
Vuole farmi premere la mano sul ventre: - È più duro, te ne accorgi,
- dice. Ma io rifiuto. - Come fai. - chiedo,- senza sposarmi.
Lei ride.
- Come fai, - insisto.
¬ C'è chi mi libera.
Quasi la soffoco con le mani al collo.
- Sei pazzo,- lei dice.
Non passa nessuno per la via di campagna, è sera; però levo le mani.
- Non sei capace, - dico.
Si scrolla nella spalle, lo vedo perché veste di bianco, è estate.
- Chi ti sposa, dopo, - dico.
- Sono bella, A dice; pare una bambina.
¬ Come l'hai pensato?
- È la guerra, - dice; sembra una vecchia.
-Vinceremo la guerra.
- Non è vero.
- Vinceremo: e scritto su tutte le case; non sai leggere?
E lei: -Tu non ci credi, come me.
- Io sì: non sto per partire?
- Per l'avventura.
Mi offendo e la scuoto, furiosamente; la stoffa mi fa rumore fra le dita.
E lei: - Basta la paura che mi metti a causare 1'aborto, - dice beffarda.
Immagino che Gen mi veda, ora, aprire la porta, chiamare mia moglie e capire dal suo "ciao", che è la sua maniera di rispondere, che egli è dentro. Divento irritabile con i bambini, hanno gli occhi tristi, dico, per il sangue guastato dal mestiere. Poi mangiamo. Nel modo di mangiare, nel disgusto che alcuni cibi e odori le procurano, io vedo la conferma del suo stato. E il silenzio che ella mantiene mi sembra dettato dall' intenzione di approfondire il nostro distacco: diventeremo nemici e non potrò chiederle di farsi fare qualcosa contro di lui. Quasi non mi domando perché devo farlo; penso al mio mestiere e devo farlo. Ho bisogno di commettere un reato per acquistare sfrontatezza, coraggio di vivere e giudicare gli altri. Si può fare il giudice con l'incoscienza che regala l'abitudine (ma io non posso aspettare l`abitudine) o per ripararsi e nascondere un delitto. Dopo, mi pentirò; perché sempre devo sentirmi pentito. Ritenevo bastasse tutta la vita la colpa d'aver desiderato la guerra ed esserci andato; non è più sufficiente. Proibito tenersi la medesima colpa, si consuma e va cambiata.

 

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