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Danno da mancata guarigione, SC: “Va risarcito solo se il paziente dimostra il nesso di causa con l’inadempimento medico”

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 Con la sentenza n. 27447 dello scorso 30 ottobre, la Cassazione ha rigettato la domanda degli eredi di un uomo, che lamentavano il danno da mancata guarigione per il decesso del loro congiunto al quale non era stata comunicata l'esistenza di un carcinoma polmonare, sostenendo che "compete al paziente che si assuma danneggiato dimostrare l'esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il danno del quale chiede il risarcimento. Ne consegue che se al termine dell'istruttoria non risulti provato il nesso tra condotta ed evento, per essere la causa del danno lamentato dal paziente rimasta incerta, la domanda deve essere rigettata".

In particolare, nel caso sottoposto all'attenzione della Cassazione, gli eredi sostenevano che la mancata comunicazione del carcinoma aveva precluso al paziente il trattamento chirurgico, aggravando in tal modo la malattia e riducendo significativamente le sue possibilità di guarigione.

Il Tribunale accoglieva parzialmente le domande proposte avverso l'azienda ospedaliera, commisurando il danno alla riduzione dell'aspettativa di vita subita dal deceduto e rilevando che l'esito letale non avrebbe comunque potuto evitarsi.

La Corte di appello di Venezia, pronunciando sul gravame degli originari attori che insistevano sul danno da mancata guarigione, lo rigettava condividendo le conclusioni del giudice di prime cure. In particolare, in relazione alla richiesta di risarcimento danni per mancata guarigione, si rilevava che, anche in ipotesi di tempestiva comunicazione del rilievo diagnostico, non si sarebbe potuta ottenere la guarigione, così come anche sostenuto dal consulente di parte attorea; ne derivava che il pregiudizio subìto, l'unico di cui si era fornita la prova, era quello della minor sopravvivenza, il cui risarcimento era stato liquidato dal Tribunale senza censure sul "quantum".

 Ricorrendo in Cassazione, gli eredi lamentavano la violazione degli artt. 1218, 1223, 2697, cod. civ., avendo errato la Corte di Appello nel ritenere che l'onere della prova del nesso causale tra l'omissione (mancata comunicazione del rilievo diagnostico) e pregiudizio (mancata guarigione e morte) spettasse all'obbligato: secondo i ricorrenti, trattandosi di responsabilità contrattuale da contatto sociale, sarebbe stato onere dell'azienda ospedaliera provare che vi era certezza della mancanza di relazione eziologica tra inadempimento, anch'esso accertato, e morte.

Ad ogni modo, gli eredi sostenevano che era stato provato il nesso causale con la mancata guarigione: poiché dalle indagini peritali era emerso che il paziente, al momento del rilievo diagnostico non comunicato, avrebbe avuto una possibilità di sopravvivenza di 3-5 anni e atteso che, dopo i cinque anni, il tumore avrebbe dovuto considerarsi trattato chirurgicamente con successo, secondo i ricorrenti era da ritenersi che l'accelerazione dei tempi di decesso era comunque equivalsa ad averlo cagionato.

La Cassazione non condivide l'assunto dei ricorrenti.

I Supremi Giudici ricordano che in tema di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere del paziente dimostrare l'esistenza del nesso causale: tale massima non si pone in contrasto con l'art. 1218 c.c., laddove esonera il creditore dall'onere di provare la colpa del debitore, giacché nei giudizi di risarcimento del danno derivante da inadempimento contrattuale, così come in quelli di risarcimento del danno da fatto illecito, la condotta colposa del responsabile e il nesso di causa tra questa e il danno costituiscono l'oggetto di due accertamenti distinti, sicché la sussistenza della prima non comporta, di per sé, la dimostrazione del secondo e viceversa.

 L'art. 1218, quindi, solleva il creditore dal provare la sola colpa (in virtù del criterio della maggiore vicinanza della prova), ma non lo esonera anche dalla prova sul nesso di causa tra la condotta del debitore e il danno di cui domanda il risarcimento: in particolare, la maggiore vicinanza del debitore non sussiste in relazione al nesso causale fra la condotta dell'obbligato e il danno lamentato dal creditore, rispetto al quale non ha dunque ragion d'essere l'inversione dell'onere prevista dall'art. 1218 cod. civ. e non può che valere, quindi, il principio generale espresso nell'art. 2697, cod. civ., che onera l'attore (sia il danneggiato in sede extracontrattuale che il creditore in sede contrattuale) della prova degli elementi costitutivi della propria pretesa.

Da quanto esposto deriva che nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica è onere dell'attore, paziente danneggiato, dimostrare l'esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il danno di cui chiede il risarcimento, onere che va assolto dimostrando, con qualsiasi mezzo di prova, che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del "più probabile che non", la causa del danno, con la conseguenza che, se, al termine dell'istruttoria, non risulti provato il suddetto nesso tra condotta ed evento, la domanda dev'essere rigettata.

Nel merito del caso sottoposto alla sua attenzione, gli Ermellini evidenziano come non si sia provato il nesso di causa tra la condotta del medico e lo specifico evento di danno lamentato dagli attori, ovvero la mancata guarigione: secondo la Corte, gli assunti attorei – secondo cui il paziente, al momento del rilievo diagnostico non comunicato, avrebbe avuto una possibilità di sopravvivenza di 3-5 anni e, dopo i cinque anni, il tumore poteva essere trattato chirurgicamente con una probabilità di sopravvivenza pari al 57% - erano mere ipotesi, non suffragate da idonea documentazione scientifica (non potendo esser considerate tali le tabelle INAIL per le malattie tumorali); d'altra parte, rileva la Corte, è una mera mimesi lessicale ritenere che l'accelerazione del tempo del decesso equivarrebbe, ai fini della responsabilità civile, a cagionare la morte, giacché l'accelerazione del decesso altro non è che il pregiudizio della minor sopravvivenza, accertato e liquidato a titolo risarcitorio dai giudici di merito.

Compiute queste precisazioni, la Cassazione rigetta il ricorso.

 

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