I giudici della
Seconda Sezione della Penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 54712 del 23 dicembre 2016, hanno stabilito che commette il
reato di truffa chi utilizza i permessi ex legge 104 /1992 per farsi la gita.
Contro la sentenza della Corte di Appello che aveva confermato la sentenza di condanna del giudice di primo grado per il reato di truffa a danno dello Stato, proponeva ricorso in Cassazione la difesa dell´imputata.
Il ricorso veniva fondato sul motivo in base al quale nel caso di specie, al datore di lavoro che aveva concesso all´imputata i permessi in forza della legge n. 104 del 1992, non sarebbe spettato alcun poter di verifica e di controllo sulle modalità di utilizzo e di impiego dei predetti permessi. La difesa sosteneva nel ricorso che per tale ragioni i permessi previsti dalla normativa citata in favore dei dipendenti si sarebbero potuto utilizzare non solo per potere assistere il familiare affetto dalla grave disabilità, ma anche per potere consentire al lavoratore, impegnato ad assistere il proprio congiunto, il pieno reintegro delle proprie energie psico-fisiche.
A dire della difesa quindi l´imputata non essendo obbligata ad utilizzare i permessi ottenuti secondo precise modalità, dettate da nome di legge o regolamentari, ben poteva utilizzare i permessi per effettuare viaggi di relax, come se fossero tre giorni feriali di libertà.
Non di questo avviso sono stati però i giudici della Seconda Sezione della Corte che, hanno ritenuto infondata la interpretazione data dalla difesa della ricorrente all´art. 33 della Legge n. 104/1992.
I giudici di legittimità infatti, dopo aver ricostruito il quadro normativo, così come nel tempo è stato modificato, che riconosce il diritto ad ottenere i permessi retribuiti, si sono soffermati in maniera approfondita sulla ratio della legge 104/1992. A tal fine nella motivazione della sentenza che si commenta, i giudici hanno richiamato la recente sentenza n. 213/2016 della Corte Costituzionale ed il principio ribadito sul punto in base al quale "Il permesso mensile retribuito di cui al censurato art. 33, comma 3, è, dunque, espressione dello Stato sociale che eroga una provvidenza in forma indiretta, tramite facilitazioni e incentivi ai congiunti che si fanno carico dell´assistenza di un parente disabile grave. Trattasi di uno strumento di politica socio-assistenziale, che, come quello del congedo straordinario di cui al D.Lgs. n. 151 del 2001, art. 42, comma 5, è basato sul riconoscimento della cura alle persone con handicap in situazione di gravità prestata dai congiunti e sulla valorizzazione delle relazioni di solidarietà interpersonale ed intergenerazionale"
Alla luce dell´affermata interpretazione dei giudici costituzionali, i giudici di legittimità hanno precisato che la norma in questione ha due finalità: a) quella di "assicurare in via prioritaria la continuità nelle cure e nell´assistenza del disabile"; b) in secondo luogo, quella di assicurare un intervento economico integrativo di sostegno alle famiglie "il cui ruolo resta fondamentale nella cura e nell´assistenza dei soggetti portatori di handicap".
"L´istituto del permesso mensile retribuito è, dunque, in rapporto di stretta e diretta
correlazione "con la finalità di tutela della salute psico-fisica della persona portatrice di handicap".
I Giudici della Seconda Sezione della Corte hanno altresì richiamato la propria precedente pronuncia n. 4106 del 2016 riaffermando il principio in base al quale chi usufruisce dei predetti permessi, può lecitamente stabilire le modalità e i tempi di assistenza al disabile che non necessariamente debbano coincidere con quelli del proprio orario di lavoro. Infatti si deve sempre tener conto delle esigenze primarie del disabile, le quali possono anche non coincidere con i tempi dell´orario di lavoro del dipendente. Detto questo però cosa diversa è potere affermare, come ha inteso fare la difesa della ricorrente, che i permessi hanno la finalità di integrare le energie psico fisiche del lavoratore. Ciò è stato escluso senza alcun dubbio dai giudici di legittimità che hanno affermato che i permessi non possono essere considerati come giorni di ferie, ma solo
come un´agevolazione al familiare che dovrà svolgere l´assistenza in modo meno pressante e, quindi, con quella flessibilità che le consentirà di dedicare una parte della giornata all´assistenza, ma anche delle ore da poter dedicare esclusivamente alla propria persona.
"In conclusione, la censura proposta con il ricorso -dicono i giudici dell seconda sezione-deve essere disattesa alla stregua del seguente principio di diritto:
"colui che usufruisce dei permessi retribuiti L. n. 104 del 1992 , ex art. 33, comma 3, pur non
essendo obbligato a prestare assistenza alla persona handicappata nelle ore in cui avrebbe
dovuto svolgere attività lavorativa, non può, tuttavia, utilizzare quei giorni come se fossero
giorni feriali senza, quindi, prestare alcuna assistenza alla persona handicappata. Di
conseguenza, risponde del delitto di truffa il lavoratore che, avendo chiesto ed ottenuto di
poter usufruire dei giorni di permesso retribuiti, li utilizzi per recarsi all´estero in viaggio di
piacere, non prestando, quindi, alcuna assistenza"
Si allega testo sentenza