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Questo è un capitolo che dedico a tutti i miei maestri e a quelli – sempre avvocati si intende – che hanno cercato di affossarmi.
I rapporti tra avvocati sono qualcosa di molto difficile. Ma non impossibile.
Il punto da cui partire è sempre lo stesso. La correttezza. È un imperativo fondamentale ed è la piattaforma da cui prendere il passo per dormire bene la notte.
I colleghi sono di tante diverse fogge e nature, dobbiamo frequentarli sempre. Non soltanto in Tribunale. Anche nel nostro studio.
Alla mattina presto, al pomeriggio ed alla sera, quando la segretaria sta per uscire ma ci deposita sulla scrivania l'ultimo fax della giornata.
La lettera dell'avvocato resta oltretutto uno degli strumenti che fanno breccia nell'immaginario collettivo. Prima di finire nel fuoco dell'artiglieria legale, ci capita la possibilità di risolvere una causa già nell'anticamera di una lettera, se è scritta in modo preciso, con i fatti risolutori posti in evidenza.
L'arte di scrivere le lettere tra colleghi è una disciplina antica, molto raffinata se ci si pensa e difficile. I più bravi restano coloro che sanno dire tutto in quattro righe.
Pensate a Giulio Cesare.
Nel De Bello Gallico e nel De Bello Civili i suoi periodi sono fucilate. Scriveva – in terza persona – usando periodi che non ammettevano una replica, a pensarci. O Tacito e alla sua prosa in cui ogni parola sembra di toccarla. L'arte di scrivere una lettera di risposta ad un nostro collega è infatti altrettanto importante della capacità di arringare in tribunale.
In aula si discute ma è nelle lettere – come negli atti – che si pongono le fondamenta per parlare bene. Ciascuno dei nostri colleghi ha un modo personale di concepire una lettera e noi dobbiamo sfruttare la spinta che ciascuno di loro imprimerà alla sua. Questo è davvero importante.
Esiste il luogo comune per cui le lettere servano per brutalizzare i colleghi e i loro clienti.
Leggo spesso fax o lettere di colleghi in cui gli stessi non esitano ad offendere i miei clienti, forse per il semplice fatto che – tramite me – hanno avuto l'ardire di avanzare una tesi diversa dalla loro. La foga e la violenza sono nemiche di un buon ragionamento da trasformare in inchiostro.
La prima regola da osservare è la calma. Dentro la calma si nasconde la lucidità. Nella lucidità si trova la chiave per rispondere.
Cominciamo dall'avvocato epistolografo innocuo. Di solito non cagiona danni significativi. Ci fa perdere magari un po' di tempo ed in qualche occasione è capace di sollevarci l'umore della giornata con la sua penna decisamente "incomprensibile". È un soggetto con cui bisogna adottare una tecnica precisa. Siccome ci inonderà di fax, almeno uno al giorno, non rispondiamo mai, se non dopo una settimana circa.
La sua vena – davanti al muro del nostro silenzio - diventerà sempre più tracimante e incazzata.
Quando è arrivato alla bollitura ideale, scrivetegli un fax striminzito scusandovi per il ritardo all'interno del quale gli mettete davanti al naso un tema mai toccato nelle sue precedenti comunicazioni. Di solito si verifica così un blocco improvviso, come per un colpo apoplettico.
Ci possiamo riposare qualche giorno.
Il collega si riprenderà presto ma a quel punto conviene scrivere un secondo fax in cui tornare indietro al primo argomento. Di solito va in palla, così.
Il collega "raziocinante" resta tuttavia il più pericoloso. Parliamo di chi usa i fax per compiere ragionamenti in cui la nostra risposta viene sempre ignorata, il chè ci costringe a ribadire all'infinito quanto già detto fin dall'inizio.
È decisamente meglio non abboccare. Scrivere poco, this is the way.
Più scrivete – oltretutto – e più errori rischiate di commettere.
Chiari e concisi. Magri e famelici come il Gladiatore di Russell Crowe. Le lettere di risposta ai colleghi devono essere proiettili. Una cartuccia senza giri superflui. Dentro quattro o cinque righe ci deve stare tutto.
Non è facile, mi rendo conto.
Provate a travasare concetti e ragionamenti in po- che righe contate. Dalle parole va estratto il midollo, mica soltanto l'osso.
Il mio maestro – ogni tanto – urlava in studio: "Sintesi! Sintesi!". Per ridurre tanti concetti in quelle righe si suda.
Forse Giacomo Leopardi si riferiva a questo tipo di fatica quando parlava di sudate carte.
La distillazione delle parole è un'arte, un'attività manuale ma soprattutto intellettuale perché coinvolge milioni di sinapsi e rende possibile compiere collegamenti dalle infinite combinazioni.
È nel non detto, la minaccia.
Una lettera di due facciate – per quanto scritta bene e articolata – presenterà dei punti morti, come le anse di un fiume dove il pesce va a nascondersi.
La lettera di risposta deve modificare la realtà con le parole. Questa è la vera magia.
Tom Hanks lo dice efficacemente in Philadelphia.
Ve lo ricordate quel film che ferisce ma da cui non ci si riesce a staccare?
Lui è un avvocato malato di aids che fa causa al suo vecchio studio perché lo ha licenziato a causa della sua malattia, discriminandolo. Lo difende un magnifico Denzel Washington che lo esamina e gli chiede quale sia la sua più grande soddisfazione come avvocato.
Tom Hanks non ha dubbi.
Il fatto – dice – che qualche volta il diritto sia capace di modificare la realtà. Accade quando vinciamo le cause.
Il chè poi non è del tutto vero. Le vittorie processuali sembrano in fondo necessitate. Seguono una loro strada e noi – forse – le abbiamo soltanto accompagnate verso il mare.
L'acqua va verso il mare, gente. Torniamo a bomba.
I colleghi.
Come dicevo all'inizio di questo capitolo, sono molto diversi. Carofiglio ne individua una specie diciamo "protetta" nell'ultimo libro dedicato all'avvocato Guido Guerrieri, quando parla del cretino presuntuoso. Il pericolo che un collega cretino possa portarvi in dote sta nell'accettare un contraddittorio con lo stesso.
Lasciate perdere.
Tenetelo a distanza come la maschera della morte rossa con degli scritti – come dicevamo – puntuti, fatti di poche parole e cocci aguzzi di bottiglia in cima, se potete.
Non prendetelo a bottigliate, anche se ve ne verrà una voglia tremenda. Ogni volta che con lui cerchiamo di risolvere una questione in modo ragionevole, vi farà la storia della causa partendo dai Fenici. Al fine di non mandarlo a fanculo, e di evitare un procedimento disciplinare nonché penale per ingiuria, è meglio dirgli di non scriverci neanche. Si vada in tribunale e basta, con lui le lettere sono fatica sprecata ed inchiostro buttato, nel cesso.
Poi c'è il collega insidioso. È molto difficile da gestire.
Non è un collega scorretto, chiariamo subito. È soltanto più abile ed attento di noi.
Utilizza la sua maggiore dose di attenzione, o di esperienza, per metterci in difficoltà.
Di solito, dopo un primo avvertimento (che bisogna cogliere subito), rinfodera la pistola perché è già contento di averci fatto strizzare per bene.
Ho sudato più freddo a leggere certe lettere di miei colleghi – durante gli anni – che per altri motivi.
L'esperienza è un'arma efficace. Se usata con astuzia può far saltare il cuore in gola.
Comunque. La mia inesperienza mi fu galeotta.
Scrivo una lettera a un tizio qualunque, manco mi ricordo più il nome.
Gli comunico che i miei clienti vantano dei precisi crediti nei suoi confronti. Per avere lavorato anni e anni per lui. E che certi registri – tenuti dai miei per lavoro – erano in qualche modo lo specchio di un certo malaffare aziendale.
Non mi resi conto che in quel modo stavo accusando una persona di un reato. Inviai la lettera tutto soddisfatto.
Mi ricordo ancora che non usai una formula ben precisa per – diciamo così – smarcarmi da quanto mi avevano comunicato i miei clienti.
Avevo iniziato quella lettera con la solita espressione che per noi avvocati suona così: scrivo in nome e per conto di.
Non avevo inserito però la locuzione più importante, quella che offre la sicurezza quando si riportano sulla carta le opinioni dei clienti.
Ve la faccio breve.
Mi arriva una risposta al fosforo del mio collega più anziano dove mi chiede se l'accusa di un reato da me inconsapevolmente formulata contro i suoi clienti fosse roba mia oppure il frutto di una notizia ricevuta dai miei assistiti.
Aggiungeva che – se l'accusa in questione fosse stata una mia elaborazione personale – avrebbe dovuto chiedere i danni anche a me.
Ero giovane e mi cagai letteralmente addosso. Non tanto per quello che mi avrebbe potuto chiedere a titolo risarcitorio – sapevo che l'equivoco si sarebbe risolto da sé o quasi – quanto piuttosto per l'errore, anzi la tremenda leggerezza che avevo commesso e il modo demenziale con cui ero finito dentro la tagliola del mio più esperto collega.
Il brutto è che mi ci ero infilato io, di mia spontanea volontà. Questo mi bruciava più di tutto.
Finì tutto con una telefonata in cui lo sentii sorridere come una volpe dentro il bosco, che se ne va con un pollo sotto i denti, il mio.
Inutile dirvi quanto abbia imparato da quella lettera.
Oggi, ogniqualvolta debba scrivere ciò che mi viene riferito dal cliente, lo faccio precedere rigorosamente dalla frase "Tizio mi riferisce che e io riferisco".
Non sai mai, infatti, cosa ci sia di vero in quanto una persona ti riporta.
Con quella formula ti distacchi dalle sue dichiarazioni e ti riponi in una condizione di sicurezza professionale.
Capita poi a tutti di incontrare il collega intransigente, o peggio, quello che – in nome della sventolata dicotomia tra professione e rapporti umani–prima beve lo spritz con te e poi va in studio a tenderti lacci e lacciuoli nelle lettere professionali. È solo business, baby.
Sono d'accordo anch'io ma evito di attaccare i miei colleghi cercando di trovare lati personali censurabili, visto che stanno lavorando come me.
Qui devo dire una cosa importante – secondo me - a questo preciso riguardo.
Noi siamo liberi.
Liberi di chiudere un rapporto con un cliente quando ci chiede cose che non vanno bene. Liberi come ulani in una steppa e liberi di dirgli che noi, certe cose, non le scriviamo manco morti.
Infine c'è il collega "silenzioso", cioè quello che non risponde mai e che si guarda bene dall'avvertir-vi anche quando deve.
Non gli importa che esista il dovere di rispondere ai colleghi né che debba alzare la cornetta del telefono in certe occasioni santificate dal nostro codice deontologico.
Sembra uno del tutto indaffarato ma in realtà è soltanto uno stronzo che non risponde né chiama perché vive in un'altra dimensione, lontana da quella che ci hanno insegnato tutti – ma proprio tutti – a rispettare.
Per lui le regole non valgono, anzi non esistono proprio.
Per lui esistono soltanto i clienti – degli altri – e i soldi che ne deriveranno come fiumi di primavera.
Il collega silente si incontra sulla nostra strada quando il cliente compie la transumanza.
Dicesi transumanza del cliente quella per cui – non appena si commette il più modesto errore o ci permettiamo di chiedere cinquanta euro in più - decide che siamo avvocati di quarta categoria e ci molla, come una fidanzata al telefono, senza una spiegazione.
A quel punto il collega da cui si reca – perché quello si che è un avvocato con i controcazzi – do- vrebbe mettersi in contatto con noi per chiederci se siamo stati liquidati del tutto.
State tranquilli. Non chiamerà mai. Comunque.
Molto spesso mi è capitato il collega che mi scrive quanto segue: "ti informo di avere assunto la difesa del signor Tizio".
Senza chiedermi se io sia a posto o meno. L'ultima volta che mi è capitato, risposi di autorizzarlo comunque a difendere Tizio benché non mi avesse domandato un tubo sui miei onorari.
In questo modo gli facevo intendere che si stava comportando scorrettamente nei miei confronti (si tratta di un vero e proprio illecito disciplinare) perché assumeva la difesa di un cliente che non aveva liquidato il vecchio difensore, cioè il relitto che sta scrivendo, per intenderci.
Sto ancora aspettando la risposta.
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