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"A chi toccherà la prossima volta?" Il 28 maggio toccò a lui. In memoria di Walter Tobagi, massacrato dalle B.R.

"A chi toccherà la prossima volta?" Il 28 maggio toccò a lui. In memoria di Walter Tobagi, massacrato dalle B.R.

 «Fa comodo dire e scrivere che le Br sono una sigla di fascisti travestiti.

Insomma: si preferisce la propaganda alla politica,

ci si illude che nascondere la verità basti a cancellarla.

Fino a quando il foruncolo diventa bubbone

e non lo si può più nascondere»

[Walter Tobagi (1947-1980),

Che cosa contano i Sindacati,

Rizzoli, Milano 1980,

capitolo IX: "Il terrorista in fabbrica"]

"Nel 1969, quando lo assunsi, mi accorsi di essere davanti a un ragazzo preparatissimo, acuto e leale. Di lui ricordo le lunghe e piacevolissime chiacchierate notturne alla chiusura del giornale. Non c'era argomento che non lo interessasse, dalla politica allo sport, dalla filosofia alla sociologia, alle tematiche, allora di moda, della contestazione giovanile. Affrontava qualsiasi argomento con la pacatezza del ragionatore, cercando sempre di analizzare i fenomeni senza passionalità. Della contestazione condivideva i presupposti, ma respingeva le intemperanze". 

"Walter preparava gli articoli con la stessa diligenza con cui al liceo faceva le versioni di latino e greco e all'università si dedicava alle ricerche storiche: una montagna di appunti, decine e decine di telefonate di controllo, consultazione di leggi, regolamenti, enciclopedie. Insomma svolgeva una mole di lavoro enorme per un pezzo di due cartelle. Ma quando finalmente si metteva alla macchina da scrivere si poteva esser certi che dal rullo sarebbero uscite due cartelle di oro colato. E se per caso, al termine delle sue ricerche e dei suoi controlli, si accorgeva di essere arrivato a conclusioni opposte rispetto a quelle da cui era partito, buttava tutto all'aria e ricominciava dal principio, senza darsi la minima preoccupazione della fatica e del tempo che impiegava. Il suo solo problema era di arrivare alla verità, a qualunque costo"

Così parlava di Walter Tobagi il suo primo direttore all'Avvenire, Leonardo Valente. Di un giornalista preparato ed integerrimo di formazione cattolica.

Al Corriere della Sera seguì sistematicamente tutte le vicende relative agli anni di piombo: dai tempi degli autoriduttori che disturbavano le Feste dell'Unità agli episodi di sangue più efferati che ebbero come protagonisti le Br, Prima Linea e le altre bande armate. Analizzando le vicende luttuose del terrorismo risaliva alle origini di Potere operaio, con la galassia delle storie politiche e individuali sfociate in mille gruppi, di cui molti approdati alle bande armate.

In Vivere e morire da giudice a Milano Walter raccontò la storia di Emilio Alessandrini, sostituto procuratore della Repubblica, assassinato a 36 anni da Prima Linea in un agguato: un magistrato che si era particolarmente distinto nelle indagini sui gruppi estremisti di destra e, successivamente, su quelli terroristi di sinistra. Anche Alessandrini era un «personaggio simbolo». Scrisse Tobagi: «Alessandrini rappresentava quella fascia di giudici progressisti ma intransigenti, né falchi chiacchieroni né colombe arrendevoli». Osservò inoltre che i terroristi prendevano di mira soprattutto i riformisti, condividendo il giudizio che lo stesso Alessandrini aveva espresso in un'intervista all'Avanti!: «Non è un caso che le azioni dei brigatisti siano rivolte non tanto a uomini di destra, ma ai progressisti. Il loro obiettivo è intuibilissimo: arrivare allo scontro nel più breve tempo possibile, togliendo di mezzo quel cuscinetto riformista che, in qualche misura, garantisce la sopravvivenza di questo tipo di società». Un giudizio che doveva trovare una tragica conferma proprio con la uccisione di Tobagi.

Negli ultimi articoli intensificò le analisi su certe realtà urbane a Milano, a Genova, a Torino («Come e perché un 'laboratorio del terrorismo' si è trapiantato nel vecchio borgo del Ticinese», «Vogliono i morti per sembrare vivi», «Bilancio di 10 miliardi all'anno per mille esecutori clandestini», ecc.). Non trascurò il fenomeno del pentitismo, con tutti gli aspetti anche negativi, e studiò il terrorista nella clandestinità, («C'è una regola dei due anni, termine ultimo oltre il quale non resiste il Br clandestino»). E siamo dunque a uno dei suoi ultimi articoli sul terrorismo, un testo che è stato ripubblicato molte volte perché considerato uno dei più significativi sin dal titolo: «Non sono samurai invincibili».

Tobagi sfatò tanti luoghi comuni sulle Br e gli altri gruppi armati, denunciando, ancora una volta, i pericoli di un radicamento del fenomeno terroristico nelle fabbriche e negli altri luoghi di lavoro, come molti segnali gli avevano indicato. Scrisse, ad esempio:

«La sconfitta politica del terrorismo passa attraverso scelte coraggiose: è la famosa risaia da prosciugare, tenendo conto che i confini della risaia sono meglio definiti oggi che non tre mesi fa. E tenendo conto di un altro fattore decisivo: l'immagine delle Brigate rosse si è rovesciata, sono emerse falle e debolezze e forse non è azzardato pensare che tante confessioni nascono non dalla paura, quanto da dissensi interni, sull'organizzazione e sulla linea del partito armato»

Le sue opinioni risultano confermate anche in un'altra significativa intervista al figlio di Carlo Casalegno, Andrea. In quell'intervista, concessa un mese prima dell'uccisione di Tobagi, Casalegno disse: «Non sento la benché minima traccia di odio, né provo alcun perdono cristiano. Sento l'offesa come nel momento in cui è avvenuta». L'intervistatore chiese se riteneva giusto denunciare i «compagni di lotta». E Andrea Casalegno rispose senza reticenze: «La denuncia è importante e va fatta se serve a evitare atti futuri gravi. È un dovere, perché è assolutamente necessario impedire che vittime innocenti cadano ancora».

La sera prima di essere assassinato, Walter Tobagi presiedeva un incontro al Circolo della stampa di Milano. Si discuteva del «caso Isman» e dunque della libertà di stampa, della responsabilità del giornalista di fronte all'offensiva delle bande terroristiche. Il dibattito fu piuttosto agitato e l'inviato del Corriere fu fatto oggetto di ripetute aggressioni verbali, cosa non nuova, del resto, come ha raccontato il suo collega ed amico Gianluigi Da Rold:

«Negli anni del suo impegno professionale e come responsabile sindacale dei giornalisti lombardi, Walter Tobagi viene violentemente attaccato, più di una volta, sia dalla parte comunista della redazione del Corriere, sia dai giornalisti di altre testate milanesi di cosiddetta "area comunista."»

A un certo punto, durante quel dibattito, Tobagi, riferendosi alla lunga serie di attentati terroristici, disse: «Chissà a chi toccherà la prossima volta». Dieci ore più tardi era caduto sull'asfalto sotto i colpi dei suoi assassini. Lasciava la moglie, Maristella, e due figli, Luca e Benedetta.

Walter Tobagi venne ucciso a Milano in via Salaino, alle ore 11 del 28 maggio 1980, con cinque colpi di pistola esplosi da un "commando" di terroristi di sinistra facenti capo alla Brigata XXVIII marzo, buona parte dei quali figli di famiglie della borghesia milanese. A sparare furono Mario Marano e Marco Barbone. È quest'ultimo a dargli quello che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto essere il colpo di grazia: quando Tobagi era ormai accasciato a terra, il terrorista gli si avvicinò e gli esplose un colpo dietro l'orecchio sinistro. In realtà, da come risulta dall'autopsia, il colpo mortale fu il secondo esploso dai due assassini, che colpendo il cuore causò la morte del giornalista.

 Condanne e pene degli assassini

Al processo del 1983 vennero emesse le condanne contro i componenti del commando.

  • Marco Barbone, il leader del gruppo terrorista, che esplose probabilmente il colpo mortale, fu condannato nel 1983 a soli 8 anni e nove mesi, poiché divenuto immediatamente collaboratore di giustizia, ed ebbe subito la libertà provvisoria, dopo tre anni di carcere scontati (uscì dopo la sentenza).
  • Paolo Morandini (figlio di Morando), anche lui immediatamente "pentito", ebbe la medesima condanna di Barbone.
  • Mario Marano (Milano, 1953), che sparò il primo colpo, confessò e fu condannato a 20 anni e 4 mesi, ridotti per la sua collaborazione, a 12 anni in appello (poi 10 con un condono). Fu condannato anche a undici anni nel processo alle Unità Comuniste Combattenti e a tre anni e mezzo nel processo a Prima Linea, per un totale di circa 24 anni. Scontò la pena ai domiciliari a partire dal 1986. Scarcerato ufficialmente negli anni novanta.
  • Manfredi De Stefano (Salerno, 23 maggio 1957), condannato a 28 anni e otto mesi; morì in carcere nel 1984, colpito da aneurisma.
  • Daniele Laus, l'autista del commando, confessò ma poi ritrattò e aggredì con un punteruolo il giudice istruttore. Condannato a 27 anni e otto mesi, in secondo grado ebbe sedici anni. Dal dicembre 1985 fu rimesso in libertà provvisoria.
  • Francesco Giordano, che fece la copertura del gruppo di fuoco, non volle ammettere la partecipazione né collaborare, anche se condannò l'esperienza del terrorismo e la sua affiliazione al gruppo. Fu condannato a 30 anni e otto mesi, in appello divenuti 21. Fu l'unico che scontò l'intera pena: uscì di prigione nel 2004. Fu condannato anche a 13 anni nel processo alle Unità Comuniste Combattenti. Giordano sostenne di essere stato torturato da polizia e carabinieri nel 1980, dopo il suo arresto.

 

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