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Assegno divorzile: va revocato se la moglie, dichiarata inabile a lavoro, guida e va in bicicletta

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Con l'ordinanza n. 5077 depositata lo scorso 25 febbraio, la VI sezione civile della Corte di Cassazione, nell'esaminare il diritto di una donna di percepire l'assegno divorzile, ha confermato le statuizioni rese dai giudici di merito che avevano revocato l' assegno divorzile essendo emerso che, nonostante la documentazione sanitaria attestante l'inabilità lavorativa della donna, la stessa camminava, guidava e andava persino in bicicletta.

Nel caso sottoposto all'attenzione della Cassazione, il Tribunale di Lucca pronunciava lo scioglimento del matrimonio di una coppia di coniugi, ponendo a carico del marito il pagamento di un assegno divorzile di 400 Euro mensili.

La pronuncia veniva appellata dall'uomo per ottenere la revoca dell'assegno divorzile; a tal fine depositava le risultanze di alcune indagini investigative, che avevano evidenziato come, anche dopo le formali dimissioni dell'ex moglie dallo studio di un commercialista, avvenute nell'anno 2010, la medesima aveva continuato a prestare di fatto attività lavorativa presso tale studio. 

L'appellata, nel costituirsi nel giudizio di secondo grado, depositava della documentazione sanitaria attestante la sua impossibilità a lavorare.

La Corte di Appello di Firenze – in accoglimento della domanda dell'appellante – revocava l'assegno di divorzio, escludendo che la donna fosse impossibilitata a lavorare posto che camminava, guidava e andava persino in bicicletta.

Ricorrendo in Cassazione, la donna censurava la decisione della Corte di merito per violazione e falsa applicazione dell'art. 5 della legge n. 898 del 1970, per aver il giudice di appello ritenuto decisive – ai fini della revoca dell'assegno divorzile - le risultanze delle investigazioni difensive in atti, senza considerare le certificazioni mediche dalla stessa ricorrente depositate nel corso del giudizio di merito.

In particolare, la difesa dell'ex moglie deduceva che le investigazioni difensive non erano circostanziate, e perciò non idonee a comprovare l'esistenza del rapporto di lavoro della ricorrente; in merito alla certificazione sanitaria, si evidenziava come la stessa fosse inequivoca nel certificare la patologia di cui la donna era portatrice e che le impediva la regolare prestazione di un'attività lavorativa. 

La Cassazione non condivide le difese formulate dalla ricorrente.

I Supremi Giudici sottolineano come la donna, con le proprie doglianze, miri ad una rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, inammissibile in sede di legittimità perché implicherebbe un terzo grado di merito.

Gli Ermellini evidenziano, quindi, che la sentenza impugnata, nell'accertare come l'ex moglie non avesse diritto ad alcun assegno divorzile, aveva ampiamente ed adeguatamente motivato la sua decisione, attesa la piena capacità lavorativa della donna, desunta dalle indagini investigative e non smentita dalla certificazione sanitaria, essendo emerso nel corso del giudizio che la ricorrente camminava, guidava e andava persino in bicicletta.

Alla luce di tanto, la Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione e al versamento dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso. 

 

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