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Appropriazione di somme del cliente, SU: “La compensazione non esclude l’illecito deontologico”

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Con la sentenza n. 11168 dello scorso 6 aprile, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, hanno confermato la legittimità di una sanzione disciplinare inflitta ad un legale che aveva trattenuto, senza alcuna autorizzazione da parte dei suoi clienti, una parte della somma accreditata sul conto corrente del medesimo professionista quale risarcimento danni elargito a favore dei suoi clienti.

Ritenuto che la condotta sanzionata non potesse essere scriminata dall'operatività di una compensazione legale, potendo la stessa ritenersi sussistente solo in presenza di un preventivo ed inequivoco consenso prestato dai clienti, la Suprema Corte ha specificato che l'art. 44 del vecchio codice deontologico (riprodotto dall'art. 31 del nuovo codice) non si presta a estensioni analogiche, in quanto rappresenta già una specifica eccezione alla regola del divieto, fatto al professionista, di ritenere le somme da lui ricevute, sicché l'operatività della norma disciplinare non viene meno in presenza dei presupposti per la compensazione legale.

Sul merito della questione aveva statuito, inizialmente, il Consiglio distrettuale di disciplina di Venezia che infliggeva la sanzione disciplinare della sospensione dall'esercizio della professione forense a un legale per aver trattenuto, senza alcuna autorizzazione da parte dei suoi clienti, una parte della somma accreditata sul conto corrente del medesimo professionista quale risarcimento danni elargito a favore dei suoi clienti per un caso di responsabilità medica. 

 In particolare, il legale tratteneva l'importo di Euro 467.726,53, ritenendolo quale compenso per la difesa, giustificando lo stesso sulla base di un accordo che sarebbe precedentemente intercorso tre le parti.

Il Consiglio Nazionale Forense, confermava la sanzione applicata, sul presupposto che la condotta posta in essere dall'avvocato doveva essere valutata solo in relazione alla sua idoneità a ledere la dignità e il decoro professionale, a nulla rilevando l'eventualità che tali comportamenti integrassero, o meno, anche illeciti civili e penali.

Alla luce di tanto, il CNF evidenziava che l'invocata applicazione, da parte dell'avvocato, delle norme civilistiche sulla compensazione non escludeva la violazione del precetto deontologico.

Il legale, ricorrendo in Cassazione, eccepiva la violazione di legge con riferimento alle norme civili sulla compensazione e per erroneo coordinamento tra le norme di relazione del codice civile e le norme di azione dell'ordinamento disciplinare.

A tal riguardo, l'avvocato si doleva per non avere il C.N.F. escluso la sua responsabilità, giacché – a suo dire – la sua obbligazione verso i clienti si era estinta per volontà di legge a seguito della compensazione legale.

La Cassazione non condivide la posizione del ricorrente.

 Le Sezioni Unite ricordano che l'art. 44 del vecchio codice deontologico (riprodotto, nella parte che interessa, dall'art. 31 del nuovo codice) prevede che l'avvocato abbia diritto di trattenere le somme ricevute a titolo di onorario, imputandole a compenso, solo in tre ipotesi: quando vi sia il consenso del cliente e della parte assistita; quando si tratti di somme liquidate giudizialmente a titolo di compenso a carico della controparte e l'avvocato non le abbia già ricevute dal cliente o dalla parte assistita; quando il professionista abbia già formulato una richiesta di pagamento del proprio compenso espressamente accettata dal cliente.

Tale disposizione non si presta a estensioni analogiche, in quanto rappresenta già una specifica eccezione alla regola del divieto, fatto al professionista, di ritenere le somme da lui ricevute, sicché l'operatività della norma disciplinare non viene meno in presenza dei presupposti per la compensazione legale.

La Cassazione, inoltre, specifica che l'istituto della compensazione non potrebbe mai escludere l'illecito, in quanto la deontologia forense è retta da precetti speciali suoi propri, che definiscono la correttezza e la lealtà dell'operato dell'avvocato, laddove le norme civili sulla compensazione sono volte ad assecondare una elementare esigenza di economicità del sistema. In tal senso, la disciplina deontologica e quella codicistica sulla compensazione riflettono una diversa vocazione: sicché, pure astraendo dalla precisa estensione applicativa delle regole sulla compensazione, deve negarsi che queste possano far venir meno l'illecito disciplinare di cui all'art. 44.

Con specifico riferimento al caso di specie, gli Ermellini evidenziano come doveva ritenersi decisiva l'opposizione, manifestata dai clienti del professionista, al trattenimento degli importi da quest'ultimo percepiti: conseguentemente, il legale era tenuto a mettere immediatamente a disposizione della parte assistita le somme, riscosse per conto di questa, che potevano essere oggetto di lecita compensazione solo in presenza di preventivo ed inequivoco consenso prestato dai clienti.

In conclusione, la Corte, pronunciando a Sezioni unite, rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello stabilito per il ricorso.

 

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