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Ricordiamo il giudice Rocco Chinnici, ucciso a Palermo il 29 luglio 1983. Fu un uomo esemplare. Di lui fu detto che era un uomo semplice e schietto e che il suo viso ricordava la Sicilia contadina, pulita, mentre i suoi occhi esprimevano bontà grande, intelligenza e fermezza. Fu, soprattutto, un giudice straordinario: "Parlare ai giovani, alla gente, raccontare chi sono e come si arricchiscono i mafiosi" - sono sue parole - "fa parte dei doveri di un giudice. Senza una nuova coscienza, noi, da soli, non ce la faremo mai".
Paolo Borsellino disse di Lui: Né la generale disattenzione né la pericolosa e diffusa tentazione alla convivenza col fenomeno mafioso – spesso confinante con la collusione – scoraggiarono mai quest'uomo, che aveva, come una volta mi disse, la "religione del lavoro". Il Suo ricordo guidi i nostri passi ed orienti le nostre azioni.
Ricostruiamo il profilo del magistrato attraverso Wikipedia.
Fu alunno del liceo classico "Umberto I" di Palermo. Dopo i bombardamenti alleati che sconvolsero Palermo, ultimò gli studi liceali percorrendo a piedi quotidianamente il tratto di strada che separava Misilmeri, dove viveva, da Palermo, perché la ferrovia era ormai inutilizzabile. Conseguì la maturità nel 1943. Si iscrisse poi alla facoltà di giurisprudenzadell'ateneo della stessa città e si laureò il 10 luglio 1947[1][2]. Durante gli studi, per alleviare l'impegno economico sostenuto dalla famiglia, aveva lavorato all'ufficio del registro di Misilmeri[3]. Qui conobbe anche Agata Passalacqua, giovane docente di scuola media che sarebbe poi divenuta sua moglie.[3]
Entrò nella magistratura italiana nel 1952, avendo come prima destinazione il tribunaledi Trapani come uditore giudiziario. In seguito fu pretore a Partanna, dal 1954 al 1966, anno in cui pervenne a Palermo, ove il 9 aprile[3]prese servizio presso l'Ufficio Istruzione del Tribunale, nel ruolo di giudice istruttore[1][2].
Nel 1970 gli fu assegnato il caso della cosiddetta "strage di viale Lazio", in cui figuravano molti nomi di criminali di mafiadestinati a successiva maggior notorietà.[3]Nel 1975, giunto al grado di magistrato di Corte d'Appello, fu nominato Consigliere Istruttore Aggiunto. Divenne magistrato di Cassazione e Consigliere Istruttore dopo altri quattro anni e come tale[3], in quel 1979 in cui fu ucciso Cesare Terranova, fu chiamato alla carica di dirigente dell'Ufficio in cui già lavorava sull'onda dell'emozione per quel delitto "eccellente"[4][5].
La lotta a Cosa Nostra e il pool antimafiaAltri omicidi eccellenti seguirono non molto tempo dopo, nel 1980, quando Cosa nostrauccise il capitano dell'Arma dei CarabinieriEmanuele Basile (4 maggio) e il procuratore Gaetano Costa (6 agosto), amico di Chinnici, con cui aveva condiviso indagini sulla mafia, i cui esiti i due giudici si scambiavano in tutta riservatezza dentro un ascensore di servizio del palazzo di Giustizia[6]. Dopo questo omicidio[7] Chinnici ebbe l'idea di istituire una struttura collaborativa fra i magistrati dell'Ufficio (poi nota come pool antimafia)[8], conscio che l'isolamento dei servitori dello stato li espone all'annientamento e li rende vulnerabili, in particolare i giudici e i poliziotti poiché, uccidendo chi indaga da solo, si seppellisce con lui anche il portato delle sue indagini[3][6].
Entrarono a far parte della sua squadra alcuni giovani magistrati fra i quali Giovanni Falconee Paolo Borsellino. Con quest'ultimo condivideva il giorno di nascita, il 19 gennaio. Altro avrebbe legato le tre figure qualche anno dopo. Disse Chinnici in un'intervista:
«Un mio orgoglio particolare è una dichiarazione degli americani secondo cui l'Ufficio Istruzione di Palermo è un centro pilota della lotta antimafia, un esempio per le altre magistrature d'Italia. I magistrati dell'Ufficio Istruzione sono un gruppo compatto, attivo e battagliero[1].» |
Il primo grande processo a Cosa nostra, il cosiddetto maxi processo di Palermo, è il risultato del lavoro istruttorio svolto da Chinnici[3].
L'attività culturaleChinnici partecipò in qualità di relatore a molti congressi e convegni giuridici e socioculturali, e credeva nel coinvolgimento dei giovani nella lotta contro la mafia, recandosi nelle scuole per parlare agli studenti della mafia e del pericolo della droga[2]. Questo pericolo ebbe a esplicitare poco prima di morire, in una nota intervista a I Siciliani di Pippo Fava[9]:
«[s]ono i giovani che dovranno prendere domani in pugno le sorti della società, ed è quindi giusto che abbiano le idee chiare. Quando io parlo ai giovani della necessità di lottare la droga, praticamente indico uno dei mezzi più potenti per combattere la mafia. In questo tempo storico infatti il mercato della droga costituisce senza dubbio lo strumento di potere e guadagno più importante. Nella sola Palermo c'è un fatturato di droga di almeno quattrocento milioni al giorno, a Roma e Milano addirittura di tre o quattro miliardi. Siamo in presenza di una immane ricchezza criminale che è rivolta soprattutto contro i giovani, contro la vita, la coscienza, la salute dei giovani. |
In altra occasione aveva detto:
«Parlare ai giovani, alla gente, raccontare chi sono e come si arricchiscono i mafiosi [...] fa parte dei doveri di un giudice. Senza una nuova coscienza, noi, da soli, non ce la faremo mai[10].» |
Fu anche uno studioso del fenomeno mafioso, del quale diede in più occasioni definizioni molto decise. Nella sua relazione sulla mafia tenuta nell'incontro di studio per magistrati organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura a Grottaferrata il 3 luglio 1978così si era espresso:
«Riprendendo il filo del nostro discorso, prima di occuparci della mafia del periodo che va dall'unificazione del Regno d'Italia alla prima guerra mondiale e all'avvento del fascismo, dobbiamo brevemente, ma necessariamente premettere che essa come associazione e con tale denominazione, prima dell'unificazione, non era mai esistita in Sicilia.» |
e più oltre aggiunge:
«La mafia [...] nasce e si sviluppa subito dopo l'unificazione del Regno d'Italia.[11]» |
Più tardi, nella detta intervista a I Siciliani, approfondì la definizione:
«La mafia è stata sempre reazione, conservazione, difesa e quindi accumulazione della ricchezza. Prima era il feudo da difendere, ora sono i grandi appalti pubblici, i mercati più opulenti, i contrabbandi che percorrono il mondo e amministrano migliaia di miliardi. La mafia è dunque tragica, forsennata, crudele vocazione alla ricchezza. [...] La mafia stessa è un modo di fare politica mediante la violenza, è fatale quindi che cerchi una complicità, un riscontro, una alleanza con la politica pura, cioè praticamente con il potere. Se lei mi vuole chiedere come questo rapporto di complicità si concreti, con quali uomini del potere, con quali forme di alleanza criminale, non posso certo scendere nel dettaglio. Sarebbe come riferire della intenzione o della direzione di indagini.[9]» |
In una delle sue ultime interviste, Chinnici disse:
«La cosa peggiore che possa accadere è essere ucciso. Io non ho paura della morte e, anche se cammino con la scorta, so benissimo che possono colpirmi in ogni momento. Spero che, se dovesse accadere, non succeda nulla agli uomini della mia scorta. Per un Magistrato come me è normale considerarsi nel mirino delle cosche mafiose. Ma questo non impedisce né a me né agli altri giudici di continuare a lavorare.[12]» |
Rocco Chinnici fu ucciso alle 8 del mattino del 29 luglio 1983 con una Fiat 126 verde imbottita con 75 kg di esplosivo parcheggiata davanti alla sua abitazione in via Pipitone Federico a Palermo[13], all'età di cinquantotto anni. Ad azionare il detonatore che provocò l'esplosione fu il sicario della mafia Antonino Madonia. Accanto al suo corpo giacevano altre tre vittime raggiunte in pieno dall'esplosione: il maresciallo dei carabinieri Mario Trapassi, l'appuntato Salvatore Bartolotta, componenti della scorta del magistrato, e il portiere dello stabile di via Pipitone Federico, Stefano Li Sacchi. L'unico superstite fu Giovanni Paparcuri, l'autista. I primi ad accorrere sul teatro della strage furono due dei suoi figli, ancora ragazzi, Elvira Chinnici di 24 anni e Giovanni Chinnici di 19, che erano in casa al momento dell'esplosione.
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