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Umberto Apice, il giudice romanziere, e l'attacco al cuore

Umberto Apice, il giudice romanziere, e l'attacco al cuore

 Umberto Apice, nato a Torre del Greco, magistrato e docente universitario, vive a Roma. Autore di  diversi saggi di diritto commerciale e collaboratore di numerose riviste scientifiche e culturali.  Ha scritto diversi romanzi, tra cui " Attacco al cuore" prefazione di Geno Pampaloni, F.lli Spada Editori, Roma 1989.
da: Attacco al cuore
Stefano guarda le ombre di foglie che si muovono sui muri bianchi del Palazzo di Giustizia. A piano terra tutte le stanze sono al buio, fatta eccezione di quelle in cui passano la notte i militari di guardia. Al primo piano è illuminata più di una vetrata: sono le luci che restano accese sempre, quelle dei saloni con i busti di marmo e dei corridoi di rappresentanza.
Qualche altra luce è accesa al quarto piano, negli uffici della Procura: in uno degli uffici siede il suo magistrato, il nemico da giustiziare. Dalla Giulia in sosta, con lo sportello spalancato, arriva la solita musica delle cassette. Mentre lui parte, come attratto da una vetrina di fotografo, lo raggiunge la voce di Blasco: "Quando non si è in azione, questo mestiere è il più ammosciante che esista". C'è del fumo nerissimo che esce da un camino. Stefano non riesce a distoglierne lo sguardo. Per lui quel fumo diventa un segnale violento, inequivocabile: vi percepisce il sogno che sta inseguendo, il sogno di una resurrezione collettiva. In un istante tutto ciò che lo circonda perde il suo scollegamento: gente e paesaggio, cose vive e cose morte, ricordi e fatti presenti si sistemano al loro posto e divengono parti di un'unica storia, che lui finalmente riesce a vedere come già accaduta e perciò essenziale, immutabile.
Cammina con leggerezza fino alla Giulia. E stupefacente, continua a vedere ogni cosa in un delizioso equilibrio. Non potrebbe immaginare momento migliore per dare inizio alla parte finale. Sa bene che nel palazzo c'è un mucchio di poliziotti. Alcuni vivono addirittura con le loro famiglie, masserizie, televisioni. C'è chi ha compiti di telefonista, chi di piantonamento, eccetera. Ma che importa? Nessuno al mondo ha la fiducia che a lui scorre nelle vene, una fiducia che e simile a un liquido caldo; nessuno ha la sua volontà devastatrice. Faranno appena in tempo a capire cos'è successo, gli altri, e loro si troveranno già sulla tangenziale. 
Con un segno della mano chiama Irene e Ivan; quando sono vicini tutt'e quattro, mentre Blasco abbassa il volume della musicassetta, dice indirizzando la voce verso l'interno della vettura: "Avete ragione, più si azzarda, meglio e. Faremo impazzire di paura tutti quelli che leggono i giornali. La gente non dovrà più sentirsi al sicuro in nessun posto. Cristo, un cosa che  nessuno ha mai fatto prima. Tu, Ivan, resterai qui: accenderai il motore dopo qualche minuto". Nessuno ha da fare obiezioni. Si stringono solo la mano, come per farsi gli auguri, e in quel momento si sentono davvero uniti. 
Da una bottega di parrucchiere esce l'ultimo cliente. Ha sotto il braccio un giornale stropicciato, che scivola sul marciapiede. L'uomo sta per raccoglierlo, poi vede i quattro ragazzi intorno alla Giulia e cambia idea. Quando arriva la telefonata dalla Questura Centrale Clerici non e in grado di dire che ora sia. L'orologio da polso è fermo da un po', e non si è dato la briga di ricaricarlo, né di chiamare il servizio telefonico dell'ora esatta.

Dopo avere scritto la lettera, è rimasto inoperoso per un tempo incalcolabile, lasciando circolare liberamente i pensieri. Le cose che ha pensato non avevano nessun rapporto con la situazione reale: un buco comparso nella suola di una scarpa, il gocciolio del rubinetto guasto a casa sua, il pranzo troppo abbondante fatto da Rossana. Non riusciva a pensare a niente di meno banale. Tutto bene, però, visto che in questo modo si sente in pace. Persino il respiro circola liberamente nel petto: trova la strada giusta e va e viene con regolarità; niente scricchiolii, niente formicolii niente sbarramenti. É una delizia.
Non è di lui che cercano al telefono, ma di Liverino: per qualcosa che e successo in piazza S. Eustorgio o lì vicino. Un omicidio, una sparatoria, così gli sembra di capire. Solo quando dice che Liverino si è allontanato e che lo sostituisce lui, allora diventano più espliciti. C'è stato un morto. L'uomo e ancora lì, sulla panchina, dove gli hanno sparato: la testa è piegata sulla spalla destra, la faccia e insanguinata, si vede sulla fronte il foro di entrata di un proiettile. I primi agenti arrivati sul posto gli hanno cercato i documenti nelle tasche, ma senza trovarli.
Poche domande di prammatica; poi Clerici autorizza la rimozione del cadavere: in fondo, e solo per questo che gli hanno telefonato. A recarsi a vedere l'ammazzato sulla panchina, non ci pensa neppure: oltre tutto, è una seccatura che toccherebbe a quello scansafatiche di Liverino.
"Aspetti" - dice la voce dall'altra parte. Un funzionario della Squadra Mobile: cosi si e qualificato. O confonde con un'altra volta? Chiunque sia, vuole dire che e stato acciuffato un tizio e che, torchiandolo un po', il tizio confesserebbe certamente.
Questo funzionario piace poco a Clerici. Gli sembra di vederlo. Uno di quei poliziotti con i capelli a spazzola, la camminatura a gambe larghe, le dita sporche di nicotina...
"Lasciatelo stare, lo interrogherò domani" dice Clerici. Solo per contraddirlo. Per nessun altro motivo. Non ha dimenticato i quattro ragazzotti che lo aspettano in strada. Improvvisamente un pensiero prende il sopravvento sugli altri: "Quel tizio, potrei interrogarlo adesso. Dirò che lo accompagnino qui, nel mio ufficio".
Non è questa la prassi, lo sa bene. Ma ci mancherebbe altro: farsi scrupoli sulle regole, ora che praticamente e tagliato fuori della vita. Ciò che gli importa adesso e impiegare bene le ore della notte e non farsela sotto proprio all'ultimo. Fisicamente si sente identico a un corpo di rettile appena ammazzato che in parte vive ancora ma sa che manca poco alla fine, che è inutile dibattersi.
Un agente: un agente entra nell`ufficio e lascia aperta la porta alle spalle. Consegna un fonogramma, in cui in poche parole senza punteggiatura si raccontano i fatti accaduti fino all'arresto dell'individuo che, subito dopo i colpi, si era messo a correre verso il fiume. Viene fatto entrare l'uomo, ammanettato, e Clerici fa un gesto, che l'agente capisce a va via, accostando il battente della porta.
Clerici ne ha viste persone entrare nel suo ufficio, in quindici anni di lavoro giudiziario. Persone convocate per un piccolo reato 0 per un grosso delitto. Uomini a piede libero o abbrutiti da anni di carcere. Vecchie volpi o incensurati, la tecnica di tutti era le medesima: occhi acquosi e sfuggenti, espressione di vergogna e stupore, parole dimesse di rispettosa protesta. L'obiettivo che si prefiggevano era di convincere che una persona come loro non era sospettabile, perché troppo diversa dall'ipotetico autore dei fatti descritti nelle carte.
Con questo tizio, si accorge subito Clerici, le cose andranno per un altro verso. Per cominciare, appena entrato, guarda negli occhi il magistrato: senza paura e senza sfida. Lo guarda con naturalezza, perfino con bonarietà, come si guarda per la strada, in un negozio, ai giardini, uno che ci fa simpatia. "Allora", attacca Clerici, pensando che gli ultimi avvenimenti non hanno cambiato certe sue abitudini verbali, giacché di solito è con questo avverbio che rivolge la parola a chi entra nel suo ufficio "mi vuole dire chi era il morto?".

Prima di rispondere, Andrea Borrelli si muove sulla sedia, cercando una posizione più comoda, che presumibilmente trova quando alla fine poggia i gomiti sul piano della scrivania, mettendo in mostra belle mani, sottili e chiare, che la morsa delle manette rende ancora più pallide.
La sua risposta è difficilmente catalogabile nella tipologia delle manovre difensive. "Che gliene importa di sapere il nome del morto, pace all'anima sua?". Clerici non risponde. Ha una lunga abitudine a nascondere i pensieri e le prime impressioni fino a quando gli uni o le altre non si sono tramutate in documenti ufficiali. Eppure questa volta l'impulso a cacciar fuori quello che pensa e veramente forte. Vorrebbe dire: "Sto cercando di lavorare, ecco tutto Cosa crede, ho anch'io i miei guai, e so bene che non basta il nome di quel povero cristo a cambiare il corso della mia vita. Perché sto qui a fare il mio solito mestiere, l'unico che conosco, e per di più con tutto quello che mi può succedere da un momento all'altro? È sempre meglio di niente, ecco come rispondo, è sempre meglio che starsene in un cantuccio a leccarsi le ferite".
L'altro annuisce, come uno che comprenda e condivida il punto di vista dell'interlocutore. A un tratto, suo malgrado, il tono di Clerici diventa supplichevole: "Perche non mi dice cos'è successo laggiù, in piazza S. Eustorgio? Se parla, tutto si semplifica, per me, e anche per lei". Ma queste parole, inspiegabilmente, producono un loro effetto. Infatti: "Ammettiamo che il morto si chiamasse come me e mi rassomigliasse - dice l'arrestato; poi tace, forse aspettando un segno d'incoraggiamento che gli rafforzi l'impulso di confessione. È chiaro che partirà da molto lontano e infarcirà la storia di dettagli superflui e non veritieri. Non è sempre così che succede con questi mitomani?
Clerici non sa trovare di meglio che ripetere, manifestando un moderato stupore, che il morto ha il suo stesso nome e gli rassomiglia. E tutt'e due si trovavano negli stessi paraggi. "Non è poi una coincidenza troppo strana" dice Andrea. Chiede il permesso di passeggiare per la stanza. Perché si sente intirizzito dal freddo, spiega. "Un freddo che mi da i brividi, non vorrei che mi venisse la febbre".
Mentre lo guarda passeggiare per la stanza, Clerici si impone di essere sincero con sé stesso. Inutile fingere. Il motivo che lo ha spinto a voler interrogare quel tizio, contro ogni regola di procedura, è stato il bisogno di dare una giustificazione a quel suo rintanarsi di notte in ufficio. Se poi servirà a qualcosa o non servirà, è un altro discorso. Borrelli si ferma a guardare da vicino una stampa che riproduce l'antica città: poi dalla finestra guarda giù la strada che gira intorno all'edificio.
"Nevoso?" dice Clerici, che in realtà vorrebbe fargi una domanda completamente diversa. Vorrebbe chiedergli cosa riesce a vedere di quanto accade nella strada sottostante. l\/la non può, significherebbe sbracarsi del tutto.  L'altro non risponde, si ricollega alle parole dette poco prima, a proposito della coincidenza. No che non era stata una coincidenza. Gli aveva telefonato, anche se ancora non si conoscevano.
Clerici nota una stranezza dentro di sé. Che l'altro voglia parlare lentamente, menare il can per l'aia, avvicinarsi ai fatti principali solo per larghi guire i ghirigori e gli sproloqui di un indiziato.
Si è sporcato le mani con la polvere e la fuliggine depositate sul vetro; si strofina le punte delle dita sui pantaloni e si volta dalla finestra. Gli si legge in faccia che sta per attaccare una lunga tiritera. "Mi scusi, signor procuratore, ma io non riesco che a vedere il lato ridicolo di questa storia.
Che cosa sta avvenendo qui? Lei ce la mette tutta per arrivare a strappare la confessione a un miserabile assassino che in una serata di nebbia e di disperazione ha compiuto un piccolo folle gesto. E quanto gliene importa che intorno a noi, incessantemente, si compia ogni sorta di genocidio? 
Bambini messi al mondo con organi già fatalmente contaminati: allergie, sostanze cancerose, guasti circolatori, depressioni. Vengono al mondo e cominciano una lenta agonia. Tonnellate di morte radioattiva immesse nella atmosfera, nei fiumi, nei laghi. Eccidi compiuti in nome della religione, del territorio, del rinnovamento sociale. L'umanità ha sempre cercato nemici e razze da sterminare, ma oggi alza su chiunque capiti il suo braccio micidiale; sembra voler fare a meno di ogni pretesto e discriminazione di razza. Come fa, davvero, a prendere sul serio il piccolo omicidio di cui sono accusato?".
Clerici non lo ha interrotto. Di solito e svelto nel lavoro; svelto e teso all'essenziale. Non pennette a nessuno di allungare i tempi di previsione di un lavoro. Ma ora non gli dispiace che le cose procedano per digressioni, né ci tiene affatto a indirizzare il colloquio. Si lascia cullare da pensieri pigri, traendo spunto da segnali, che una volta avrebbe scacciato indietro.
Ha fatto compiere un mezzo giro alle rotelline poste sotto la struttura della poltrona e si trova con gli occhi a pochi centimetri dalla pianta stradale della città. "Una città con alcuni milioni di abitanti" pensa lucidamente, ma è anche come se nel suo cervello girasse un nastro magnetico inciso da qualcun altro. "Che spaventoso serbatoio di violenza. Una polveriera che custodisce pieghe putrescenti, gas pestiferi, viscere incancrenite, antibiotici, anfetamine, coloranti, cervelli spappolati dalle teorie, acque ribollenti di cianuro e benzolo, raffinerie, reattori nucleari » se la guardiamo cade un cerino acceso è la fine: la fine ingloriosa di ogni tipo di vita".

 

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