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Ciò che imperversa nelle varie trasmissioni televisive, nei rotocalchi e più compiutamente nelle cronache giornalistiche è il tema della legittima difesa. Destinatario di novelle legislative, a nome di una pretesa civiltà giuridica, l'art. 52- pur apparentemente chiaro nel suo lessico- pone sempre il problema del trovare un "di più" che possa garantire al consociato la tutela dei propri beni giuridici (prima di tutto la vita). La corretta implementazione dell'art. 52 c.p. nelle fattispecie concrete non può però tramutarne il sostrato nel senso di costituire un "diritto" tout court: più precisamente l'articolo in questione non si traduce nel riconoscimento ex ante di una sfera d'azione per l'aggredito che accetta lo scontro dell'aggressore quando nel singolo episodio è possibile evitare il conflitto. Di tale avviso è difatti la pronuncia n. 39977/2019 della Suprema Corte la quale, nel caso de quo, esclude l'applicabilità della scriminante in questione e non individua alcun eccesso colposo.
Nella fattispecie un soggetto era imputato per reato continuato: egli difatti aveva minacciato la vittima e l'aveva colpita ripetutamente causandole dapprima gravi lesioni e successivamente la morte. L'imputato veniva così condannato nell'ambito del rito abbreviato e analoga sorte gli toccava nel giudizio di appello. Ciò che emergeva dalla ricostruzione era che la vittima era stata colpita da una serie di armi "letali" in sequenze temporali così ravvicinate tra di loro tali da impedire alla stessa di accennare ad una qualunque difesa. Secondo i giudici di merito il proposito di uccidere dell'imputato non poteva essere escluso dal fatto che egli si fosse ritrovato la vittima nel proprio allevamento. Sebbene difatti l'elemento soggettivo veniva ricostruito sotto la forma del dolo d'impeto, a seguito dell'apparizione non piacevole della vittima presso la propria azienda, l'efferatezza del delitto non escludeva la lucidità dell'agente. In buona sostanza l'imputato aveva messo in atto una sequela di violenze le quali nient'altro erano che espressione di un sentimento d'odio ben covato. Tutto ciò dunque bastava per i giudici ad escludere tanto l'eccesso colposo di legittima difesa quanto la circostanza attenuante della provocazione della vittima. Veniva dunque presentato ricorso per Cassazione avverso la sentenza d'appello con il quale si lamentava il malgoverno degli artt. 52 e 55 c.p.: ciò che difatti era incontestabile per l'imputato è che egli avesse sorpreso la vittima nell'atto di commettere un furto di bestiame munita di un bastone (inizialmente scambiato per un fucile); stanco dell'ennesimo furto perpetrato dalla medesima persona, lo scontro sarebbe stato inevitabile. Per suggellare la propria tesi l'imputato inoltre richiamava la nuova normativa sull'art. 52 c.p.: in base alla stessa difatti agiva "sempre" in legittima difesa chi compiva il fatto al fine di respingere colui che si introduceva con armi.
La Corte di Cassazione respinge le motivazioni dell'imputato facendo anzitutto perno sull'art. 55 c.p.: la configurabilità dell'eccesso colposo (causato secondo l'imputato dalla sua alterazione dello stato d'animo a seguito dei rapporti tesi con la vittima) presuppone sempre gli estremi della legittima difesa che qui sono insussistenti. Dalle dichiarazioni dell'imputato e dalle modalità del delitto si evince difatti che la condotta posta in essere non rispondeva ai canoni della difesa bensì era lo sfogo di un pesante risentimento verso la vittima. La Corte inoltre richiama la propria consolidata giurisprudenza secondo cui non è possibile appellarsi alla legittima difesa per giustificare la propria aggressione nell'ambito di un scontro che viene accettato. Nel caso di specie poi manca la proporzione fra l'offesa e la difesa: il bestiame, oggetto del tentato furto, non può essere equiparato al bene della vita. Anche la novella legislativa lascia come requisiti indefettibili della legittima difesa la proporzione tra difesa e offesa e l'assenza del proposito omicidiario.
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