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Chi determina il compenso dell’avvocato?

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Rientra nella logica dell'autonomia negoziale la possibilità per le parti di determinare gli elementi del contratto. L'individuazione dei suddetti ovviamente va contemperata con gli interessi che ne costituiscono il sostrato: le disposizioni normative giuridiche possono difatti sancire la loro inderogabilità qualora si tratti di situazioni giuridiche che, per il valore assunto dalle stesse nell'ordinamento, necessitano di una tutela la quale si esplica nell'assenza del potere dispositivo. La violazione delle predette disposizioni viene sanzionata in prima battuta con l'invalidità (nullità o annullabilità a seconda dei casi); risulterebbe inoltre vacua tale previsione qualora il binario processuale non consentisse ai consociati l'azionabilità delle disposizioni attraverso l'intervento del giudice nello schema contrattuale. È pur vero però che la sottile linea di demarcazione fra autonomia negoziale e l'intercessione giudiziale trova il suo equilibrio nel senso che il giudice non può operare nel contratto affinché lo stesso assuma i connotati dell'equità, salvo il caso della clausola penale. A rigor di logica dunque anche il compenso dell'avvocato, nell'ambito di un contratto di prestazione d'opera professionale, sarebbe rimesso all'autonomia delle parti ma nonostante ciò l'intervento di una recente pronuncia della Suprema Corte traccia dei confini diversi: con l'ordinanza n. 29212/2019 gli Ermellini statuiscono il potere del giudice di ridurre il compenso dell'avvocato fino alla metà laddove la causa presenti profili di particolare semplicità.  

La vicenda origina da un ricorso proposto da un avvocato nell'ambito di un procedimento di cognizione sommaria: precisamente la Corte d'Appello condannava il cliente al pagamento di una somma a favore del ricorrente riconoscendo la legittimità delle pretese di quest'ultimo.Il giudice di secondo grado osservava che il compenso richiesto dall'avvocato, nell'ambito di una causa di riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato e del susseguente pagamento delle differenze retributive, era in linea con le tariffe indicate nel D.M. 55/2014. Aggiungeva però che il tipo di questioni così trattate nella causa di lavoro non presentavano aspetti peculiari o di difficile risoluzione stante il fatto che essi erano comuni a molti giudizi; inoltre la domanda di risarcimento del danno esistenziale non aveva trovato accoglimento, il che giustificava una riduzione del compenso dell'avvocato del cinquanta per cento. il difensore proponeva così ricorso straordinario per cassazione lamentando anzitutto l'illegittimità della riduzione in quanto controparte non aveva contestato l'ammontare del compenso, né aveva richiesto la riduzione dello stesso; inoltre, ad avviso del ricorrente, tale decisione del giudice finiva per ledere il decoro della professione forense. Il ricorrente si doleva inoltre del fatto che la Corte d'appello non avesse tenuto in considerazione gli interessi moratori che andavano calcolati dal giorno della domanda. Con il terzo motivo veniva poi censurata l'erronea compensazione delle spese in quanto la parte resistente risultava totalmente soccombente.

La Corte di Cassazione, nella sua decisione, fa perno sull'art. 2233 c.c. in base al quale, in mancanza di accordo fra le parti, il compenso è determinato in via degradata dalle tariffe, dagli usi o dal giudice. Ricordano inoltre i giudici di Piazza Cavour che per consolidata giurisprudenza la determinazione del giudice ex art. 2233 c.c., laddove egli si muove in corrispondenza alle tariffe, non può essere censurata in sede di legittimità se adeguatamente motivata. A chiusura del cerchio dunque la Suprema Corte ribadisce il potere integrativo del giudice nello schema contrattuale.  

 

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