A dichiararlo, con sentenza n. 17303/2016, depositata il 23 agosto, la quarta sezione della Suprema Corte di Cassazione.
La detta pronuncia ha definito il ricorso con il quale un lavoratore dipendente aveva consumato, in grado di legittimità, il rigetto, da parte della Corte d´appello di Torino, dell´appello da lui proposto avverso la pronuncia con cui il giudice di prime cure gli aveva negato l´indennità di disoccupazione.
La Corte aveva ritenuto che, essendo esclusa la spettanza dell´indennità in questione nel caso di dimissioni, ad analoga soluzione dovesse pervenirsi per il caso in cui il rapporto di lavoro fosse cessato a seguito di risoluzione consensuale, tanto più che nella specie non era stata provata la sussistenza di alcuna giusta causa di recesso.
Da qui il ricorso in cassazione, che tuttavia è stato respinto, ma che ha fornito l´opportunità alla Corte di precisare, ed in parte ribadire, importanti principi in subjecta materia.
Sul primo motivo di ricorso relativo all´ equiparazione operata dai Giudici di gravame tra dimissioni volontarie e dimissioni negoziate, la Suprema Corte ha richiamato la propria giurisprudenza, secondo cui la equiparazione, con conseguente diniego dell´indennità di disoccupazione, riguarda essenzialmente chi, avendo la possibilità di proseguire il proprio rapporto di lavoro, rinunzia al posto, ponendosi in tal caso spontaneamente nella posizione di disoccupato.
Se dunque per un verso, ha sostenuto la Sezione - deve convenirsi con la sentenza impugnata quando afferma che, ai fini in discorso, la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro è sostanzialmente equiparabile alle dimissioni, nessuna differenza concettuale sussistendo fra la dichiarazione di volontà necessariamente recettizia con cui il lavoratore pone unilateralmente fine al rapporto di lavoro e quella destinata a confluire, in uno con la speculare dichiarazione del datore di lavoro, nell´accordo relativo ad un contratto di transazione, deve per altro verso escludersi che il mero condizionamento derivante dalla sussistenza di trattative volte a prevenire o por fine ad una lite possa di per sé solo inficiare la libera determinazione del volere del lavoratore: ciò che conta è la sussistenza in concreto della possibilità che egli prosegua il rapporto di lavoro. Nessun diritto al trattamento di disoccupazione, dunque, secondo i Supremi Giudici, può pretendere il lavoratore che sia unilateralmente receduto dal rapporto o vi abbia comunque posto negozialmente (e dunque volontariamente) fine.
Né, ha precisato il Supremo Collegio, è ravvisabile alcuna giusta causa di licenziamento nel secondo motivo di ricorso, ossia nell´asserita impossibilità per il lavoratore di progredire in carriera e di crescere professionalmente in conseguenza della legittima determinazione aziendale di chiudere il reparto di cui egli era responsabile: la nozione di giusta causa, infatti, è da ricollegare o ad un gravissimo inadempimento (cfr. da ult. Cass. n. 25384 del 2015) ovvero ad un´altra causa oggettivamente idonea a ledere il vincolo fiduciario (v. in tal senso Cass. n. 3136 del 2015) e tanto non può dirsi per la lesione delle pur legittime aspettative di progressione in carriera e di crescita professionale che un lavoratore normalmente ricollega allo svolgersi del rapporto di lavoro, trattandosi - almeno fintanto che la condotta datoriale non sconfini in una violazione dell´art. 2103 c.c. - di aspettative di mero fatto.
Il ricorso, pertanto, è stato respinto dal Supremo Collegio.
Sentenza allegata
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