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Rinuncia dei soci al finanziamento erogato alla società

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Riferimenti normativi: Art.7, comma 5 bis, D.Lgs.n.546/1992

Focus: La rinuncia dei soci alla restituzione di un finanziamento erogato alla società genera una sopravvenienza attiva tassabile per la società? Sulla questione si è pronunciata la Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Lazio con la sentenza n.3166/6 del 13/05/2024.

Il caso: Una contribuente ha impugnato dinanzi alla Commissione tributaria provinciale un avviso di accertamento con il quale l'Agenzia delle Entrate aveva determinato a carico della stessa, socia e compartecipe di una società s.r.l., un maggior reddito di capitale, relativo all'anno d'imposta 2014, scaturente dal presunto maggior reddito della società distribuito ai soci generato dalla rinuncia dei soci ai propri finanziamenti fatti in favore della società. 

La Commissione Tributaria Provinciale ha accolto il ricorso evidenziando che l'Ufficio aveva erroneamente effettuato il recupero nei confronti della contribuente. Infatti, secondo il collegio giudicante la rinuncia dei soci alla restituzione di un finanziamento fatto in favore della societa' non genera una sopravvenienza attiva ma si configura come un apporto di capitale atipico da parte del socio che genera solo un movimento di natura patrimoniale, da debito della societa' ad aumento del capitale sociale, senza alcun reddito tassabile (Cassazione Civile sent. 20052/2020). Ha, inoltre, evidenziato che il ricorso della società dinanzi alla Commissione tributaria provinciale era stato accolto e che l'accertamento emesso nei confronti della stessa era stato annullato e, di conseguenza, era stato annullato anche il recupero dell'irpef in capo ai soci. L'Ufficio ha impugnato con appello la sentenza di primo grado per inidonea valutazione dei fatti controversi, reiterando quanto già dedotto in primo grado di giudizio, e la contribuente costituitasi in giudizio ha eccepito l'inammissibilità dell'appello e, nel merito, la correttezza della sentenza impugnata. La Corte d'Appello, sulla base degli atti e della documentazione prodotta, ha preliminarmente evidenziato che l'accertamento impugnato derivava dall'avviso di accertamento emesso in capo alla società, di cui l'appellata era socia con quota di partecipazione del 50%, e che era stato rigettato l'appello proposto dall'Agenzia delle Entrate relativamente all'accertamento societario dell'anno 2014 confermando l'illegittimita' del recupero effettuato dall'Ufficio. 

La Corte ha osservato che "nonostante la società e i soci, ciascuno in relazione alla pretesa vantata nei loro confronti, siano destinatari di avvisi autonomi, anche se originati da fattispecie comune, entrambi debbono, autonomamente, essere posti in condizione di esercitare compiutamente il proprio diritto di difesa in relazione alle diverse pretese avanzate nei loro confronti". Nel caso di specie, il collegio giudicante ha ritenuto che non ricorre l'ipotesi di litisconsorzio necessario ed ha riconosciuto il diritto della contribuente di introdurre argomentazioni relative all'accertamento in capo alla società, che costituisce presupposto dell'avviso a suo carico, argomentazioni che saranno oggetto di diverso ed autonomo apprezzamento da parte del Giudice. In particolare, in caso di ristretta base sociale l'accertamento dei maggiori redditi accertati imputati in capo alla societa' non comporta la presunzione di distribuzione in capo al socio appellato. Secondo il principio ribadito più volte dai giudici della Suprema Corte l'accertamento di utili extracontabili in capo alla societa' di capitali a ristretta base sociale consente di attribuire la loro distribuzione tra i soci in proporzione alle loro quote di partecipazione, salva la facolta' per gli stessi di fornire la prova contraria costituita dal fatto che i maggiori ricavi non siano stati fatti oggetto di distribuzione ma che siano stati accantonati dalla societa' o da essa reinvestiti. Nella fattispecie, la presunta distribuzione ai soci che ha generato il maggior reddito accertato rispetto a quello dichiarato non risulta adeguatamente provata dall'Ufficio, ai sensi dell'art.7, c.5 bis, D.Lgs.n.546/1992, introdotto con l'art.6 della L.n.130/2022. Pertanto, la Corte d'Appello ha rigettato l'appello dell'Agenzia delle Entrate per non aver fornito in modo circostanziato e puntuale le ragioni oggettive su cui si fonda la pretesa impositiva contenuta nell'atto impugnato ed ha confermato la sentenza di primo grado condannando l'appellante alle spese di giudizio.

 

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