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Amante "canta" tutto a moglie di lui, che la perseguita su Facebook. Cassazione: "È stalking"

Commette stalking e merita una condanna chi - a seguito della rivelazione al coniuge da parte di un terzo di una relazione extraconiugale - ponga in essere atti persecutori attraverso i social network nei confronti dell´amante.
Lo ha chiarito la Suprema Corte di Cassazione con sentenza n. 57764/2017. L´imputato aveva creato un profilo Facebook denominato "lapidiamo la rovina famiglie" in cui erano postate foto, filmati e commenti con riferimenti più o meno espliciti alla parte offesa. Comportamento che aveva esposto la stessa al ludibrio pubblico data la particolare pervasività della vetrina mediatica delle bacheche facebook, conducendo la ad esporre denuncia a fronte di una condotta che, ictu oculi, era suscettibile di concretare quegli atti persecutori rilevanti ai fini della configurazione del reato di stalking.

Si era messo in testa di vendicarsi della sua ex amante usando Facebook. Per farlo aveva aperto una pagina che si chiamava "lapidiamo la rovina famiglie", dove pubblicava insulti, foto, filmati e commenti contro la malcapitata. Dopo le denunce e i processi questa brutta storia è andata avanti fino alla Corte di Cassazione, che ha scritto la parola fine. L´uomo, un 47enne, è stato condannato per stalking.

Ma facciamo qualche passo indietro. I due si frequentano ed hanno una relazione extraconiugale. A un certo punto la donna decide di svelare la loro unione alla moglie. Da quel momento inizia la "vendetta". L´uomo mette in atto pedinamenti, appostamenti, invia sms ingiuriosi e minacciosi e crea la pagina con contenuti "fortemente denigratori" sul social network. La Suprema Corte, con una sentenza della quinta sezione penale, ha confermato la condanna inflitta all´imputato dai giudici del merito (Tribunale di Biella e Corte d´appello di Torino): nel suo ricorso, dichiarato inammissibile, l´uomo aveva sostenuto "l´impossibilità" di configurare il reato di stalking nel caso in cui "l´attività asseritamente persecutoria sia realizzata attraverso Facebook".

I giudici della Cassazione, invece, hanno chiarito che "la giurisprudenza ammette che messaggi o filmati postati sui social network integrino l´elemento oggettivo del delitto di atti persecutori e l´attitudine dannosa di tali condotte - si legge nella sentenza - non è tanto quella di costringere la vittima a subire offese o minacce per via telematica, quanto quella di diffondere fra gli utenti della rete dati, veri o falsi, fortemente dannosi e fonti di inquietudine per la parte offesa". Secondo la Corte, inoltre, "è del tutto irrilevante che la vittima potesse ignorare" i post pubblicati in quella pagina Facebook "semplicemente non accedendo al profilo", in quanto "l´attitudine dannosa è riconducibile alla pubblicizzazione di quei contenuti". Non importa se la donna avesse letto o meno quei contenuti, ma che questi fossero presenti sul social network e, quindi, alla portata di tutti gli utenti di Facebook.
Fonte: il Giornale 28 dec

 

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