Per migliaia di giovani laureati a pieni voti, diciotto mesi negli uffici giudiziari italiani sono un´esperienza formativa straordinaria, ma a perdere.
Per i malanni della giustizia italiana, stretta tra carenza cronica di organico e lo smaltimento di circa tre milioni e mezzo di fascicoli di arretrato, i tirocinanti sono una risorsa preziosa. Peccato però non valga il contrario: per migliaia di giovani laureati a pieni voti, diciotto mesi negli uffici giudiziari italiani sono un´esperienza formativa straordinaria, ma a perdere. Di ricevere uno stipendio, neanche a parlarne. Ma c´è di peggio: a sorpresa è saltata pure la borsa di studio.
Il tirocinio in tribunale è una delle possibili strade, con la scuola di specializzazione e il titolo di avvocato, per sostenere il concorso di magistratura: si tratta di affiancare un giudice per 18 mesi, assistere alle udienze e aiutarlo nella stesura dei provvedimenti. Sulla carta, i tirocini previsti dal cosiddetto Decreto del Fare del 2013 hanno l´obiettivo di «migliorare l´efficienza del sistema giudiziario» e sono destinati ai laureati con meno di 30 anni e un voto di laurea superiore a 105. In pratica, da lunedì al venerdì e per un minimo di sei ore al giorno, il piccolo esercito di tirocinanti aiuta ad alleggerire la mole di lavoro dei giudici. Nel 2015 il ministero della Giustizia decise di prevedere un rimborso spese di 400 euro al mese, da distribuire sulla base del reddito delle famiglie, stanziando un fondo di 8 milioni di euro.
Anche se con grande ritardo, oltre 1500 volenterosi, cioè tutti i tirocinanti, sono stati rimborsati. Portare gli aspiranti magistrati nei tribunali italiani si è rivelato un´idea azzeccata, tanto che nel 2016 le richieste di tirocini da parte dei tribunali italiani sono più che raddoppiate. Ma le risorse per pagare le borse di studio sono rimaste le stesse.
Così la settimana scorsa 1300 dei 4mila volenterosi hanno scoperto che dal ministero non riceveranno nemmeno un euro, perché esclusi dalla graduatoria stilata sul reddito delle famiglie. «Ad aprile ho concluso i diciotto mesi, mi aspettavo circa 7mila euro, ma alla fine ne ho ricevuti solo 1200 per il 2015 - racconta Elena Cante, 27 anni, barese laureata a pieni voti alla Cattolica di Milano -. A luglio tenterò il concorso di magistratura, ho svolto il tirocinio in contemporanea con la scuola di specializzazione. Tutto a spese della mia famiglia, e ritengo sia una grave ingiustizia: siamo trattati come studenti, anche se non lo siamo più da un pezzo».
La graduatoria pubblicata la settimana scorsa ha escluso poco meno della metà dei partecipanti sulla base dell´Isee, calcolato per le prestazioni erogate per il diritto allo studio universitario. Nessuno di loro però è uno studente, tanto è vero che per il fisco la borsa è equiparata alle retribuzioni da lavoro dipendente.
Per protestare, i ragazzi hanno creato un gruppo su Facebook e scritto una lettera al ministro della Giustizia Andrea Orlando. «È assurdo che lo Stato, che impone ai liberi professionisti e alle aziende di retribuire i propri stagisti, anche solo sotto forma di rimborso spese, sia il primo a non rispettare i suoi obblighi - scrivono i giovani e beffati tirocinanti -. Le nostre proposte sono tre: un ulteriore stanziamento dei fondi, una redistribuzione delle risorse o l´accesso a numero chiuso, anche se andrebbe contro l´interesse di tutti. Lo chiediamo perché il lavoro è lavoro, e va pagato».
«Non si tratta di una sorprendente vicenda isolata - commenta Claudio Riccio, esponente del comitato nazionale di Sinistra italiana, che ha presentato un´interrogazione parlamentare sulla vicenda -. Dai volontari dell´Expo agli scontrinisti della Biblioteca nazionale di Roma, c´e un´intera generazione a cui viene chiesto di lavorare grati in nome dell´esperienza, del sacrificio e di un rigo in più sul curriculum». «Non ci sono orari prestabiliti, non dobbiamo timbrare il cartellino, tanto per capirci - racconta Daniele Labianca, 25 anni, tra i tirocinanti senza rimborso del tribunale di Foggia -. Anche lavorando come praticante avvocato la storia è la stessa: la regola in Italia è il praticantato gratuito. Per chi cambia città, ci sono pure le spese di vitto e alloggio, sempre e solo a carico dei genitori. Anche se sei laureato bene e in tempo, preparato e disposto a sacrificarti, dopo la laurea in giurisprudenza soldi non se ne vedono mai».
Pubblicato il 29/06/2017 La Stampa
NADIA FERRIGO